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Bar Sport

di Roberto Fedi
  Ciclismo epico
Data di pubblicazione su web 03/06/2008  

Forse qualcuno di voi ha visto qualche puntata del Giro d’Italia. Beh, l’ha vinto Contador, uno spagnolo bravino che ha un nome che sembra quello di un torero e che invece corre come un ragioniere. Non diventerà mai un mito, questo è sicuro, ma è bravo – o, almeno, gli altri erano peggio di lui. Quindi, viva. Ma non è di questo che qui si voleva parlare.

Il Giro d’Italia, interamente o quasi trasmesso dalla Rai con dirette infinite su RaiTre, è uno spettacolo secondo noi allegorico, o almeno metaforico. È la prova provata di come la Tv sia ingannevole, e poi (nello specifico) fatta per metà di immagini e per metà di parole. Ci spieghiamo meglio.

A vedere le riprese (pur non eccezionali, per la verità: quest’anno la Rai non è stata all’altezza) a chiunque verrebbe da pensare che questo è un Bel Paese, come si diceva una volta, e come titolò l’abate Antonio Stoppani il suo fortunato libro sulle piacevolezze geografiche d’Italia, 1875: per chi non lo sapesse, è suo il faccione che appare sulla confezione dell’omonimo formaggio, si parva licet. Verde dovunque. Strade lisce come la seta, rifatte per l’occasione. Anzi, già che ci siamo vorremmo pregare l’organizzazione di far ripassare il Giro, l’anno prossimo, dalle nostre parti: da quando transitò anni e anni fa, il Comune non ha più rifatto una strada neanche a chiederglielo come una grazia. Panorami bellissimi. Gente festosa. Insomma, un bel posto dove stare, vivere, lavorare. Bello anche col tempo brutto.

E questo è l’inganno, naturalmente. Perché basta poi accendere un telegiornale, anche per sbaglio quello di Fede, e si capisce che due sono le possibilità: o il Giro attraversa un Paese che non esiste, o lo schermo ci frega. Siamo per la risposta fifty-fifty. Fate una corsetta a Napoli, please. Magari con una volata fra due ali di sacchetti della spazzatura e poi ne riparliamo. O anche su qualche strada di quelle che frequentiamo noi, tutte buche. O negli ingorghi perenni di Firenze o delle autostrade-superstrade-strade da Nord al Sud.  O sulla Salerno-Reggio Calabria. O sulla superstrada Valdichiana-Perugia. O su quella Firenze-Pisa-Livorno.  O sul tratto Venezia-Padova. O da Bologna all’Adriatico. O in Liguria. O sul GRA de Roma. O dove diavolo volete. Inutile lustrarci gli occhi con quei bei nastri d’asfalto e quelle belle valli senza discariche. Non prendeteci per i fondelli.

Ma  questo è un discorso a parte, uno sfogo di automobilisti disperati. Perché siamo al secondo punto, dolentissimo. Non ci stancheremo mai di ripeterlo. Ci sono due personaggi che andrebbero mandati a fare un altro lavoro, magari ben pagato ci mancherebbe, ma proprio per carità di patria ciclistica. Di uno non ci stancheremo mai di invocare l’allontanamento. È costui il triste personaggio che però, ahimè ahinoi e ahiciclismo, fa il telecronista. Chiamasi Auro Bulbarelli. Come sia arrivato ormai da anni a sostituire il mitico Dezan è il quarto mistero di Fatima (o quinto? non ricordiamo bene), e comunque non lo sappiamo, ma fu sicuramente un miracolo. È petulante. Ha una voce modesta. Sempre uguale. Se alza il tono, per esempio perché il ciclista Sella, bravo, scatta in salita, ecco che gli esce uno strillino. Parla di continuo. Dice “cari telespettatori” come se questo bastasse a farlo diventare un presentatore. Se sbotta in un flebile “che spettacolo!” perché magari c’è una fase della corsa particolarmente avvincente, poche quest’anno, è il massimo che riesce ad esprimere come emozione, per poi ripiombare nella routine. Non smette un secondo di chiacchierare. Si ricorda a memoria tutto il ciclismo del mondo, supponiamo aiutato dal computer (sennò è preoccupante), compresi i piazzamenti in qualche tappa di un Giro di vent’anni fa, ma non riesce a darci un’idea, anche minima, di quello che vede lui e vediamo noi. Ogni tanto dice una lezioncina di dieci secondi perché si sta passando da una città d’arte come succede ogni mezz’ora, e viene voglia di non andarci mai da quelle parti neanche pagati. Insomma, secondo noi un disastro. Accanto, l’ex ciclista Cassani fa il suo compitino, è anche lui monotono come una tappa di trasferimento ma, avendo quello lì come contraltare, sembra addirittura vispo.

L’altro, veramente deleterio, è tale Fusco, che dirigeva il cosiddetto Processo alla Tappa. Un Bar Sport di mezzi morti, noiosi, dialettofoni, con l’ex ciclista Sgarbozza che non vorrebbero probabilmente neanche in una Tv di provincia e che fa sbalordire a sentirlo, un Marino Bartoletti che non si capisce come sia finito lì,  e il conduttore moscio come una serata di pioggia che dà un po’ la parola a Moser (quello d’antan), un po’ a qualche ciclista (i migliori: almeno si son fatti un mazzo così), un po’ a qualche ospite raccattato non si sa come e non si sa perché (intravisto Teocoli: ma che ci va a  fare?). Una mezz’ora di tristezza da far sembrare il Bulbarelli uno spregiudicato. Forse la faranno per quello.

Ma perché Mediaset non compra più il ciclismo? Hanno il figlio di Dezan, un po’ sovrappeso ma ai suoi tempi, se non altro per discendenza, neanche male. Su, Berlusconidi: uno sforzo…







 
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