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Una luce nel buio feroce

Chiara Bettinelli
  Bobò e Gianluca Ballarè in una scena dello spettacolo; foto di Gianluigi Di Napoli
Data di pubblicazione su web 21/05/2008  
Pippo Delbono dichiara all’inizio dello spettacolo di essersi lasciato ispirare da un testo, Questo buio feroce Haroldt Brodkey (e dalle suggestioni del viaggio in Birmania durante il quale si è imbattuto in questo libro). Si tratta di un testo autobiografico, poco noto, in cui l’autore narra il proprio percorso verso la morte a causa dell’Aids.

A dispetto del tema e del titolo dello spettacolo, Delbono sorprende con uno spettacolo particolarmente “luminoso”: nella costruzione scenografica, nel light design e negli ariosi commenti musicali. Ma il buio cui fa riferimento il titolo, lo si percepisce comunque distintamente: è il dolore che trasuda dai personaggi che sfilano davanti allo spettatore. Dolore di uomini e donne che vivono vite segnate di continue contraddizioni.

La scena è abbagliante: imponenti pareti bianche delineano uno spazio dal sapore metafisico. Nelson, storico attore della compagnia, nudo e scheletrico, con il viso coperto da una maschera africana, entra in scena a carponi, come un animale, si stende al centro e per un attimo pare abbandonarsi al sonno o alla morte. L’enigmatica maschera africana lascia il posto a una corsia d’ospedale dove, pazientemente, uomini e donne attendono che venga urlato, urlo disperato di morte, il proprio numero per una risonanza o per un prelievo di sangue.




Inizia così il percorso di avvicinamento alla morte che si concretizza in una struttura composta per giustapposizione di scene e che, come sempre negli spettacoli di Delbono, può rinunciare ad una vera e propria drammaturgia. Come in una danza macabra si avvicendano in scena diversi personaggi, quasi il morente protagonista voglia, presentandoli al pubblico, purificarsi dalle contraddizioni della propria vita.

Sembra sia la varietà a dominare lo spettacolo: tra gli attori non c’è un solo individuo che abbia caratteristiche simili ad un altro e tutti sfidano i canoni della bellezza: basso, alto, magro, grasso, normodotato, down, microcefalo, giovane, vecchio, uomo, donna. Pippo Delbono sembra voler scandagliare le varie identità possibili che un uomo può assumere. Attraverso una carrellata di improbabili situazioni rilegge le infinite declinazioni di una vita, i desideri frustrati (una Cenerentola in cerca di un principe azzurro) e le realtà di solitudine (fatte di squallidi annunci sui giornali, lette in scena con voce distante e metallica da una giovane donna provocante).




Nonostante in scena regni la morte, con il bianco luminoso che è il colore del lutto orientale, lo spettacolo comunica più che l’abbandono ad una fine inevitabile, la grande energia con la quale è stata vissuta una vita. La grande maestria di Pippo Delbono lo induce a creare all’interno di uno spettacolo una serie di situazioni sceniche che stemperano il senso di tragedia con siparietti giocosi di efficace impatto emotivo: Nelson Lariccia sorprende con un’esibizione canora di My Way di Frank Sinatra, e si merita applausi a scena aperta e fiori da una scintillante soubrette; le due mascotte della compagnia, Bobo e Gianluca Ballarè, in variopinti costumi da Arlecchino, giocano ad uno struggente nascondino tra le quinte laterali della scena ed elevano lo spettacolo in una dimensione di pura poesia.

E alla fine entra in scena lui, Pippo Delbono, in abiti bianchi, lutto e luce che vestono l’uomo. Lo spettacolo solcato di profondo dolore e di irriducibile contraddizione si libera finalmente nella danza del protagonista, che, osservato da lontano dalla massa compatta ed eterogenea della morte, non si pente di nulla della sua vita e entra sereno, libero e scalzo, nella morte.


Questo buio feroce
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