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"So di essere di media statura, ma non vedo giganti intorno a me"

di Marco Luceri
  "Il Divo"
Data di pubblicazione su web 03/06/2008  
C’è una scena, ne Il Divo, in cui Andreotti e la moglie Livia, a casa, seduti davanti a un piatto di rigatoni all’amatriciana ragionano guardandosi indietro. «Tu hai sempre avuto la battuta pronta» sussurra lei all’uomo più potente d’Italia, che di lì a poco sarebbe stato messo alla sbarra dai tribunali di Palermo e Perugia per i suoi presunti rapporti con la mafia. E lui, serafico, risponde con un’altra corrosiva, cinica battuta. Il senso di un personaggio, di un’interpretazione, e forse di un film intero sta tutto lì: la ricerca di una chiosa, di una finis verborum che zittisca tutti, lasciando impotenti, con intorno il vuoto, il silenzio.



L’interpretazione di Toni Servillo in quella scena è memorabile, per tutti i motivi che non sono stati evidenziati dalla "critica" nostrana in decine e decine di pagine scritte a margine di questo attesissimo film proveniente da Cannes. Orrendamente trasformato da un trucco pesantissimo, ingobbito e con le orecchie ricurve, l’attore ha rifiutato ogni forma di mimesi con il personaggio; chi se la ricorda infatti la fortunatissima caricatura fatta tanti anni fa da un altro grandissimo attore, Oreste Lionello, in quel decadente cabaret televisivo all’amatriciana che è ancora il Bagaglino? Entrava in scena silente, dalle quinte, come un fantasma diabolico: uno sguardo, una battuta e tutta l’attenzione era lì, concentrata su quella minuta figura riversa sul mondo. Stessa tecnica anche ne Il Divo: vecchi trucchi da volpi del palcoscenico, come lo è Servillo, ma funzionano ancora, a quanto pare.

Creare una maschera, una caricatura mostruosa di un uomo già consegnato alla Storia attraverso le sue "divistiche" immagini da copertina, sempre e comunque deformate, è forse l’approdo definitivo di un modo di concepire la realtà italiana contemporanea che appartiene, tra i nostri registi, solo a Paolo Sorrentino. E’ come se, in definitiva, egli girasse sempre lo stesso film; o meglio, è come se ogni opera fosse una splendida variazione sul tema della mostruosità. Che siano un calciatore fallito del casertano (L’uomo in più), un prestanome della mala confinato in Svizzera (Le conseguenze dell'amore) o un usuraio dell’Agro Pontino (L'amico di famiglia), non c’è proprio nulla di che ridere a vedere queste rabelaisiane figure portare il Bene attraverso il Male.



Ecco anche perché le somiglianze che la nostra "critica" ha ravvisato tra Il Divo e il cinema di illustri predecessori come Rosi e Petri non reggono; il film di Sorrentino è lontanissimo dal filone del cinema politico e se proprio volessimo prestarci allo sterile giochino dei rimandi sceglierei Ferreri, quello di Dillinger è morto, per tutta quella carica di banale e pop mostruosità quotidiana, concentrata nella mani di un uomo che stringe una pistola colorata. Fa bene perciò Sorrentino a relegare la Storia (dei misteri d’Italia) a brevi didascalie tarantiniane, e lasciare che la storia (del personaggio e dei suoi s-gang-herati comprimari) prenda il suo corso, tra musiche pulp e sparatorie alla coreana, traslazione di quei toni parodici, grotteschi e infimi che solo il Potere riesce a configurare nel massimo del suo fulgore.

Il Potere come ossessione, il Potere come mantenimento dell’Ordine, il Potere come dialogo con dio, il Potere come sessualità, il Potere come Tutto. «Non c’è nulla al di fuori della Politica» sussurra Andreotti al suo portavoce, condensando ancora una volta in una battuta tutto il senso amaro, ma vero del Potere, e cioè che non esistono Poteri Buoni in Italia. Quando finalmente questo Paese sarà libero dai moralismi ipocritamente giustizialisti e autoassolutori di gran parte dell’ "opinione pubblica" (efficacissima in questo senso la scena del dialogo tra Andreotti e Scalfari) forse si riuscirà veramente a comprendere fino in fondo tutto l’Orrore che sta dietro la nostra Storia. E per quanto ben poco possa contare un film nella vita di una nazione forse Il Divo servirà a qualcosa.



Come il fantasma di Moro diventa un’ossessione per il divo, così le colpe di una società inerme e collusa nella sua interezza possono diventare il giusto fantasma da conservare come memorandum per ogni cittadino di questo Paese. Così, quando tutti la sera ci accomoderemo sui nostri divani, davanti alle poltrone bianche del telesalotto di Vespa vedremo che tra politici, professori, giornalisti, operai, casalinghe, impiegati, magistrati, commercianti, avvocati ecc., ogni tanto spunterà la caricatura di un intero Paese: un vivissimo ultraottantenne con la gobba, le orecchie piegate e la battuta pronta.

Ci sembrerà un puro caso. Ma io non credo al caso, e neanche alla volontà di dio.



Il Divo
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