Perché scegliere Carmen, opera stranota e rappresentata, per il Maggio musicale, cioè per quello che, pur con una spiccata vocazione internazionale che non è comunque deriva turistica, è pur sempre un festival, o come lo si voglia chiamare, unistituzione che sospende il tempo della normale routine esecutiva per sperimentare e offrire nuove proposte? Perché, evidentemente, si ha qualcosa da dire: una nuova lettura scenica, una nuova interpretazione musicale, nuovi talenti da lanciare, insomma una qualche ragione ci sarà. Se c era, però dobbiamo confessare che, a sipario calato, non siamo riusciti a trovarla. Zubin Mehta è sempre un prodigio di finezze e suggerimenti ma qui, pur conducendo lorchestra e il coro ai consueti livelli di eccellenza, non sembra aver avuto la forza di opporsi al nulla ideativo di Carlos Saura.
Dispiace dirlo e perciò lo diciamo subito: non capiamo perché listituzione fiorentina continui nella pratica, che si è dimostrata ampiamente perdente, del ripescaggio di registi cinematografici (meglio se di sontuosa anagrafe) per affidargli imprese casuali o, come in questo caso, di pericoloso remake. Nella fattispecie siamo dinanzi ad un autoremake, poiché la felice trasposizione scenico-tersicorea del film dello spagnolo risale a venticinque anni fa, quando tutti erano al loro zenith, anche la grande Cristina Hoyos qui poco più che prestanome e il protagonista Antonio Gades splendeva al sommo della sua arte flamenca). Già allora Saura per cavarsi dimpaccio dallabuso di folklore sivigliano aveva risolto con un ben riuscito parallelismo tra vicenda rappresentata e coinvolgimento analogico degli interpreti. Ma ora, che fare? Lintollerabile folklore è stato levato ma non appare sostituito.
Cè poi unincomprensibile dissonanza tra la scenografia, quasi zen, costituita da disincarnati e astratti pannelli dietro i quali compaiono volta a volta suggestive ombre cinesi che duplicano felicemente i piani dellazione, e i costumi quasi tradizionali e comunque descrittivi, il cui ingombro si moltiplica nellimponente numero di coristi (eccellenti grandi e piccini, i primi preparati dal maestro stabile Piero Monti, i secondi da Marisol Carballo). Naturalmente qualche zampata resta, soprattutto nei momenti in cui le psicologie sono più rilevate e i personaggi seguiti con rispettosa attenzione, quali il duetto nella V scena del II atto tra Carmen e don José, o lagnizione di questultimo da parte di Escamillo nelle gole della montagna o, finalmente, tutto latto IV, in cui il letargo registico pare cedere ad una sorvegliata ma partecipe trepidazione nella coscienza dellineluttabilità del dramma.
Detto ciò è evidente che gli interpreti procedono un po in ordine sparso e quindi se la cava assai bene Inva Mula (Micaela) che non fa affatto da controcanto “bianco” alla “nigra” sigaraia ma canta autonomamente senza porre né porsi i problemi che abitualmente comporta il suo inserimento nella vicenda. Lottimo Ildebrando d Arcangelo da parte sua non ha grossi problemi perché anche Escamillo procede drammaturgicamente per conto suo, è la cartina di tornasole del desiderio mutevole di Carmen, non un vero antagonista. Venendo ai veri protagonisti della storia i due differenti registri degli interpreti ben rendono la sostanziale incomunicabilità tra i due personaggi. Se non ci è spiaciuta affatto linclinazione “verista” di Alvarez (che però non strideva con linsieme solo perché linsieme non cera) Julia Gertseva ci è parsa protagonista piuttosto debole, bella scenicamente, individualmente padrona del palcoscenico ma non motore della vicenda e, anche vocalmente, piuttosto contigua ai ritmi sopranili che al canto scuro del mezzosoprano. Salvo nellultimo atto in cui il sangue, oltre a scorrere dinanzi allarena, pare rifluire un po nelle vene del regista, accompagnando tutti ad un compiuto, emozionato finale che giustifica i calorosi applausi conclusivi come sempre duplicati allapparire del maestro Mehta e della sua aristocratica affabilità.
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