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Il cinema di tutti: vi racconto come è nata la Festa di Roma

di Marco Luceri
  Mario Sesti
Data di pubblicazione su web 08/04/2008  

Giovedì 13 marzo 2008 nell’Aula Magna del Polo Universitario di Prato il giornalista, critico cinematografico e regista Mario Sesti ha tenuto una lectio magistralis sui rapporti tra la critica e il cinema di oggi. Alla fine della lezione è stato proiettato il documentario «La voce di Pasolini» di cui Sesti ha curato la regia. L’iniziativa ha permesso ai giovani studenti di confrontarsi liberamente con uno dei più importanti organizzatori di eventi cinematografici nel nostro paese. Sesti è infatti da due anni direttore artistico di ben tre sezioni della Festa del Cinema di Roma (Extra, Incontri e Il lavoro dell’attore). I suoi film documentari sono stati proiettati al Festival di Cannes, al MoMA di New York, all'Università di Princeton, al Festival di Locarno, al Festival di Torino, al Museo Guggenheim di New York. Molte di queste opere sono state programmate da Rai Tre, Raisat Cinema, Tele +, Mediaset, la Sette. Nel 2003 ha realizzato un suo film-inchiesta sul finale perduto di «8 e ½» di Fellini («L'ultima sequenza») che è stato selezionato dal Festival di Cannes, proiettato a New York, Seattle, San Paolo, Londra, Monaco, Budapest, San Francisco, Los Angeles e in tutta Italia. Dal 1998 fino al 2000 è stato responsabile del progetto CINEMA FOREVER, per il quale ha curato il restauro, tra gli altri, di classici come «Un maledetto imbroglio», «La dolce vita», «Umberto D.», «Francesco giullare di Dio». Nel 2005 il film documentario su Pasolini (realizzato insieme a Matteo Cerami con voce narrante di Toni Servillo) è stato scelto dalla collana Real Cinema e distribuito nelle librerie Feltrinelli. Sesti è stato anche direttore artistico del Festival Cinema &/è Lavoro di Terni e dal 2004 Carlo Verdone lo ha chiamato a curare le retrospettive del Terra di Siena Film Festival.

Riportiamo una parte del suo intervento:

Sono un critico cinematografico. Dietro questa espressione, dietro questa figura, che nella mente dei più è giustamente legata quasi sempre a delle caricature, si cela una professione che io trovo affascinante, molto interessante e soprattutto versatile. Chi fa il critico cinematografico secondo me fa una professione che in parte è difficile da descrivere, ma che si può declinare in tantissimi modi. A me è capitato, facendo il critico, di fare dei libri (a me piace moltissimo scrivere), di fare il giornalista, di fare il programmatore televisivo, di organizzare e dirigere dei festival, e di dirigere dei film, anche se non mi ritengo assolutamente un regista. Questi due film hanno girato tutto il mondo ed è la vera cosa bella, perché iniziano a girare per conto loro, come se avessero una vita indipendente da chi li fa. Parafrasando il motto di un celebre guerrafondaio, per me queste cose sono il prolungamento della critica con altri mezzi. Chi l’ha detto infatti che il critico deve saper scrivere solo con le parole?

In realtà la cosa bella della critica cinematografica tradizionale, del modello novecentesco ispirato a quello del critico teatrale, è descrivere, parlare, analizzare e costruire discorsi in una lingua completamente diversa da quella che invece costituisce il testo cui ti riferisci. Questo però è un handicap molto interessante: le persone che fanno questa cosa devono saltare in un altro territorio, devono entrare in questa contraddizione; trovo che questo sia molto bello, dover cioè costruire una lingua che in se stessa ha sempre reso possibile l’utopia di una mimesi, di una riproduzione di una lingua per immagini e suoni. Questo vale per il film su Fellini, che poteva essere un libro, ma avrebbe interessato forse solo qualche storico, e non avrebbe di certo girato per il mondo.

Può capitare poi di fare delle cose che possono avere degli effetti sulla cultura del cinema. Io mi ritengo molto fortunato perché a un certo punto della mia vita mi sono trovato al punto giusto nel momento giusto, nel momento in cui si cercava di ideare un modello di festival completamente diverso da quelli che c’erano stati fino ad allora.

Ho lavorato per molto tempo all’Auditorium, che a sua volta è un po’ il brodo primordiale di quello che poi è successo alla Festa del Cinema di Roma; è un’istituzione che ha una caratteristica che a me piace molto, la plasticità: puoi trovare dal grande direttore d’orchestra a Gianna Nannini, dal grande compositore di jazz al festival della danza contemporanea, al festival etnomusicale. E’ un posto che ha avuto questo grande privilegio e anche questa grande fortuna di identificarsi innanzitutto con una forma architettonica. E pensare che prima era uno dei posti più sfigati di Roma: vicino al villaggio olimpico dove la notte i ragazzi del liceo andavano a prendere in giro i transessuali, buio, sporco. E’ la sfida più grande per ogni architetto quello di cambiare completamente un luogo. Per l’Auditorium è successo come per il Beabourg negli anni Settanta a Parigi, o a New York per la nuova sede del Lincoln Center: cambi forma a quel paesaggio e questa forma acquista dei contenuti, dei riflessi sulla società, diventa un posto in cui è piacevole starci, anche se non si hanno biglietti per gli spettacoli; l’auditorium ha ad esempio una libreria che ha il secondo fatturato di Roma, c’è un ristorante alla moda frequentato dai pariolini, ma va bene lo stesso; è diventato un posto un po’ trendy, ma se uno c’arriva sembra di stare in un aeroporto: la domenica ci stanno le famiglie con i bambini, è uno spazio in cui si può spendere la vita in maniera gradevole, e dove è bello andarci.

A un certo punto mi è stato chiesto di organizzare degli eventi di cinema in questo posto. Che cosa si può fare di cinema in un posto del genere? Che poi diventava una domanda ancora più impegnativa: che cosa si può fare con il cinema oggi? I modelli di organizzazione culturale cinematografica al momento in cui ci accingevamo a ripeterne le sorti, erano molto vecchi: c’era il modello classico del cineforum anni ‘50: si proietta un classico, poi dopo un esperto ne parla con il pubblico, modello famoso soprattutto per la sua caricatura di Fantozzi. C’è il modello televisivo che in Italia non ha avuto mai grande fortuna, esistono in America e in Francia delle rubriche di critica cinematografica, anche queste ampiamente parodiate da Benigni. Ma poi ci siamo chiesti: che ne è del cinema nelle persone qualsiasi? Mi sembrava un errore proporre un modello di cinema per qualcuno che avesse i libri di cinema casa, che avesse una laurea in cinema o che fosse un cinefilo, che appartenesse cioè a una tribù molto larga negli anni Ottanta, ma che ormai si è ridotta alle dimensioni di una riserva indiana. Anche del cinefilo è più popolare la caricatura: uno sfigato che a volte ha l’eskimo, il colorito poco tonico, dall’aspetto sempre un po’ risentito verso i circuiti che non danno i film che piacciono solo a lui.

Perché questo non funziona? Perché il cinema ha nella cultura della modernità un posto completamente diverso! Il cinema è una cosa che piace a tutti: c’è qualcuno che ama il rock, qualcuno che ama il teatro, qualcuno che ama i libri, ma tutti vediamo film, tutti abbiamo un attore preferito, tutti abbiamo il film della nostra vita. Non c’è bisogno di avere dei libri di cinema o una laurea in cinema per avere con il cinema un rapporto di intimità profonda. Quello su cui mi sembrava giusto lavorare era proprio questo: tutti hanno il cinema nel loro dna. La prima volta che ho portato mio figlio al cinema aveva tre anni, è entrato nella sala e si è messo a sedere come se lo avesse fatto da sempre. La cosa bella del cinema è la provvisorietà di quell’intimità profonda che si crea tra tante persone che non si conoscono, che non hanno letto gli stessi libri, che non vengono dallo stesso posto, che non vengono dalla stessa classe sociale, ma che provano davanti a uno schermo un senso di comunione misteriosa, totale, ma provvisorio. Questo è il cinema. Questa è la cosa bella. È diverso dai film. Ecco, il cinema è il film più questa comunione tra diversi che è la sala. E riguarda tutti, non c’è bisogno neanche di saper leggere e scrivere per provarla e questa è stata la fortuna del cinema, che si è diffuso come un’epidemia, molto più del teatro o della radio. Perché altrimenti, pochi mesi dopo l’invenzione dei Lumière, nascevano i cinematografi a Sidney o a Mosca?

Riuscire a trasmettere questa cosa qui era più importante che parlare a quelli che hanno i libri di cinema a casa che sanno chi sono Wenders, Anghelopulos o Wong Kar-wai. Abbiamo perciò iniziato a pensare che la formula giusta fosse portare agli spettatori quello che il cinema non riesce mai a dare loro: tutti abbiamo l’home-teather a casa, tutti abbiamo i nostri dvd, non c’è film che non possiamo rivedere, o versione di Blade Runner che non possiamo acquistare, ma ciò che non avremo mai a casa saranno Harrison Ford o Ridley Scott in carne e ossa. Paradossalmente quello che abbiamo fatto somigliava molto di più al teatro: da Silvio Muccino fino ai fratelli Coen abbiamo iniziato a costruire degli incontri che avessero innanzitutto questo particolare privilegio, e cioè l’idea che fisicamente uno possa condividere del tempo e dello spazio con una persona che ha uno statuto mitico per il semplice fatto di essere legato oggettivamente e soggettivamente con il film stesso. E questa cosa assomiglia più al teatro che al cinema: se vuoi vedere i Coen devi muoverti da casa quella sera lì, altrimenti non li vedi. La più grande rivista di cinema del mondo, i "Cahiérs du Cinéma" a metà degli anni Cinquanta ha definitavamente fissato il canone della cinefilia: non devi mai fare una distinzione tra il cinema di serie a e quello di serie b, non c’è differenza tra Jerry Lewis e Jacques Rivette. La cosa bella della cinefilia è la sua totale democrazia: tutti valgono lo stesso, se sono in grado di emozionarti, se diventano la tua ossessione, se ti fanno divertire, se ti fanno provare qualcosa di profondo, se sono in grado di raggiungere lo statuto mitico che gli attori hanno di divenire delle creature quasi immateriali. Amare il cinema significa amare questa infinità di valori e tutti i modi in cui il cinema può essere se stesso.

Questa cosa qui ha iniziato ad avere un grande successo, anche perché di sale all’Auditorium ce ne sono tante e con vari posti. La sfida era dunque impegnativa: riempire una sala di 700 posti in un mondo in cui per lo più la gente dopo le otto e mezzo di sera si piazza sul divano di fronte a un televisore di casa. Il cinema ha ancora la forza o l’energia di strappare queste persone? Sì. Abbiamo scoperto che i tanti che avevano visto i film dei fratelli Coen accorrevano in massa a vedere i Coen di persona! Abbiamo perciò costruito un modello di intrattenimento molto semplice, che però cercava di tenersi equidistante sia dalla televisione che sia dall’università: si parla di cinema in modo diverso. Chiamavamo gli attori, sceglievamo delle sequenze tratte dai loro film, o erano loro stessi a scegliere film di altri. I Coen ad esempio hanno scelto un film di Bresson. E lì si instaurava un colloquio. Il bello era che non essendo né televisione né università i tempi li decidevamo noi. Si creava perciò un ambiente un po’ domestico in cui si aveva la netta impressione di stare a casa dei fratelli Coen, con loro che parlano con degli amici, senza l’ansia da prestazione da conferenza o da intervista. Da noi quindi sono passati in tanti: Spike Lee, Arthur Penn, David Lynch e poi, con la formula del duetto, Monicelli e Ciprì & Maresco, la Sandrelli e Margherita Buy e tanti altri. L’incontro di cui vado più orgoglioso è stato quello con Terrence Malick, che prima di noi non era mai andato da nessuna parte. Lui è uno di quelli che non si fanno mai fotografare (l’unica foto disponibile su web gliel’ha scattata il padre), che non rilasciano mai interviste. Grazie ad Antonio Monda, critico e regista italiano che lavora a NewYork, e che ci ha fatto da ponte con Malick in maniera decisiva, abbiamo provato a invitarlo, e con sorpresa Monda si è sentito dire da Malick: «Io so chi sei. Mi hanno parlato di te i Coen». Iniziò così una trattativa estenuante per portarlo a Roma. Ci impose tantissime condizioni, tra cui il divieto per il pubblico di fare domande, l’assenza di fotografi, televisioni e che le prime file fossero vuote. Non voleva assolutamente parlare né di sé né del suo cinema, ma alla fine si decise, e ci disse che sarebbe venuto, ma che avrebbe parlato solo di cinema italiano. Scelse delle sequenze da Divorzio all’italiana di Germi, da Il posto di Olmi, da Lo sceicco bianco di Fellini e dai film di Totò. E per tutta la sera non si tolse mai il cappotto. Fu una serata memorabile.

L’idea dunque ha funzionato, è cresciuta pian piano, e a Roma si è creato questo spazio anche presso la stampa, diventando ben presto l’idea di partenza da cui poi è nata la Festa di Roma.

Quindi c’era da una parte questa iniziativa che andava sempre più imponendosi, e dall’altra il vecchio sogno di Veltroni di fare un festival a Roma, ma il vero producer della festa di Roma è stato il suo braccio destro Goffredo Bettini: lui è stato un po’ come i grandi produttori del passato, con alle spalle una storia molto interessante, perché ha iniziato a 14 anni come critico a "Cinema Nuovo" e poi è diventato uomo politico. E’ nata quindi così la Festa di Roma, che si è di fatto imposta subito riscrivendo il paesaggio dei grandi eventi cinematografici in Italia, e non mi sembra infatti casuale che dietro ci siano due personaggi, come Veltroni e Bettini, che non hanno un rapporto qualsiasi con il cinema.

Anche la questione del red carpet la difendo come una cosa identitaria della Festa di Roma. Di fronte all’Auditorium c’è questa bellissima piazza interna, una cavea, per cui i divi arrivano, fanno una lunga passeggiata e poi c’è una sorta di rotonda semicircolare per cui essi si concedono al centro di un anfiteatro al massimo di visibilità possibile. Io penso di essere tra i maggiori responsabili di questa cosa qui, però penso che questo appartenga al cinema; è certamente un rito mistificatorio, mitizzante, con il quale si celebra la divinità di qualcosa che non è divino, ma è anche il suo contrario: l’idea di vedere come cammina De Niro, di guardarlo avere a che fare con la realtà, con magari il colletto sbottonato o la giacca sgualcita. Pasolini diceva che la realtà è un’infinità di dettagli e il cinema è la cosa che può ospitare più realtà di qualsiasi altro linguaggio. La bellezza del cinema è che niente può batterlo per quantità di realtà. Ed è proprio questo che accade: tu stai lì con il tuo telefonino, cerchi De Niro e vedi che la faccia della tua fidanzata non è che poi sia così diversa dalla sua. Non è solo perciò lo spettacolo della divinità, ma anche il suo necessario esporsi ai limiti della realtà, il fatto di essere soggetti a un certo tempo, a un certo spazio, a una certa luce, a una certa temperatura. Quante volte abbiamo visto De Niro camminare in quella sua maniera inconfondibile! Ecco, vederla dal vivo annulla l’effetto trascendentale del cinema, quel qualcosa cioè che trasforma la realtà in linguaggio. Al contrario lì è il linguaggio che si fa corpo. Sono costretto a misurare la mia immagine mitica con l’esperienza che ho di tutti i corpi, il loro non essere perfetti, il loro essere mutuati dal loro modello sono in certa misura.

La prima volta abbiamo ospitato Sean Connery, che era stato per tanti anni il modello di un modello di un mito, James Bond, una statua, una silhouette. Ecco allora che vedere Sean Connery con le sue vere sopracciglia, le più espressive della storia del cinema, significava toccare con mano ciò che diceva Cocteau, e cioè che «il cinema è la morte al lavoro», perché fissa un’immagine che la vita poi provvede a cambiare. Non più quello lì, è un altro. Appunto, è la quantità incredibile di realtà che ci da la nostra percezione e che poi il cinema trasforma, costruisce, ricuce in un altro linguaggio. Quindi quando sostengono, soprattutto dall’estrema sinistra o dai festival che dicono di essere stati danneggiati da noi, che quello del red carpet è un’esperienza in realtà fittizia, mistificante, che non c’entra niente con il cinema, io non sono affatto d’accordo. È qualcosa invece che appartiene al cinema, al modo in cui esso lavora sulla nostra cultura: significa dover misurare un modello ideale con la realtà e quelle persone che sono lì assiepate vicino alla passerella sono persone che hanno un rapporto molto profondo con il cinema. Quelli che fanno le foto con il cellulare a Nicole Kidman per poi farle vedere all’amico, alla fidanzata o al compagno di scuola hanno un rapporto con il cinema che appartiene all’essenza stessa del cinema. Non hanno libri di cinema a casa, ma hanno un rapporto con il cinema che è il cinema stesso a costruire per come è fatto, per come è. C’è un altro aspetto, a tal proposito, che riguarda strettamente il mio personale impegno nella festa, e sono le retrospettive sugli attori. Ci sono dei grandi attori il cui stile e la cui capacità di raggiungere grandi platee e di riprodurre un certo tipo di personaggi mi paiono molto simili a quelle dei romanzieri. Ci sono tanti bellissimi libri sui registi, sulle inquadrature di Ozu, Hitchcock o Rossellini, ma non ce ne sono altrettanti che mi spiegano perché la camminata di Robert Mitchum è così cinematografica o per quale ragione Mastroianni o la Magnani o la Davis riescono a firmare un’inquadratura come riescono a farlo i grandi autori. Quindi c’è una specificità nell’attore che è ancora vergine. Non esiste un grande festival dedicato agli attori di cinema. C’era perciò questo vuoto interessante proprio sul piano critico, perché scrivere degli attori è difficile, in quanto bisogna usare strumenti nuovi, sfuggenti.

La mia esperienza ha fatto sì che mi trovassi al posto giusto e al momento giusto, ma quest’idea che ho del cinema è nata dalla mia cultura di critico. Alla Festa abbiamo messo al centro il pubblico, la gente e non i giornalisti e i critici perché non ci sono solo le proiezioni, ma c’è anche un prima e un dopo, con gli incontri che sono delle vere e proprie lezioni di cinema.

Nel piatto panorama dei festival specializzati solo in un tipo di cinema o in un genere, un festival per avere un rapporto profondo con il pubblico deve assomigliare un po’ alla televisione. Deve avere cioè una sua articolazione interna, una sua dinamica. Noi abbiamo infatti sia il red carpet che Ascanio Celestini, sia i divi hollywoodiani che i centri sociali. La Festa è un focolaio, con tante piccole fiammelle che si accendono in tutta la città; la grande utopia sarebbe che durante la Festa tutta Roma fosse contaminata dal cinema. La cosa più brutta e deprimente di quasi tutti i festival è il fatto che si trasformino in piccole iniziative che si fanno nei centri storici di graziose cittadine italiane con uno sparuto manipolo di persone molto specializzate, che vedono film con sottotitoli in lingua straniera, e che vengono visti come alieni dalle persone che ci abitano. Questo può essere un congresso di latinisti, una riunione di amanti dell’opera, ma non può essere il cinema, perché è un’altra cosa. Il cinema è quella cosa di cui puoi parlare con chiunque, a chiunque e in qualsiasi modo.

Non c’è niente come il cinema: non penso infatti che i linguaggi siano tutti uguali, penso invece, come dice Rohmer, che il cinema abbia un privilegio ontologico: vedere un film è una cosa diversa che leggere un libro o vedere un quadro. Ha in più un quantum di realtà, c’è la firma dell’imprevisto. Lo potete vedere anche con una piccola videocamera, senza bisogno di essere registi: anche la più squallida delle inquadrature che si fanno in mille occasioni parla delle cose che sono meglio di un quadro, di una sinfonia o di un libro. Somiglia alla realtà. Le inquadrature somigliano al mondo molto più di quanto le parole somigliano alle cose. Dietro all’accusa mossa alla Festa di essere troppo popolare si nasconde perciò la grande profondità del cinema, la sua natura più primordiale, l’idea che ci appartiene più di qualsiasi altra cosa. E’ questo secondo me il senso più alto del fare cultura: fare qualcosa e poterla comunicare a più gente possibile, rendendola felice.






 






 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




 

 

 

 


 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 





 
Nicole Kidman sul red carpet della Festa di Roma
 
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