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Abbandonare la zona di sicurezza

di Riccardo Castellacci
  No Country for Old Man
Data di pubblicazione su web 20/02/2008  
Vi sedete nella sala pensando di assistere a un racconto capace di sedurvi, intrigarvi, o solo disgustarvi, e invece – almeno questo è quanto mi è accaduto – la sensazione che lascia No Country for Old Man, l’ultima opera dei fratelli Coen (Joel e Ethan), autori di opere come Fargo, Il grande Lebowsky, L’uomo che non c’era, è quella che qualcuno si sia piazzato proprio dietro la vostra poltrona e, verso la fine del film, vi abbia colpito, senza farsi vedere. Una stoccata alla schiena. Una impressione di disorientamento e di lieve frustrazione, la percezione di essere stati "giocati" dagli autori, diviene parte del film e della sua riuscita. Questo risultato è in gran parte da addebitarsi alla solidità della sceneggiatura, che ricalca in modo piuttosto preciso le orme del romanzo di Cormac McCarty dallo stesso titolo (Einaudi 2006).


Tommy Lee Jones

I Coen hanno preso la storia di McCarty, già di per sé spoglia, asciutta, scarnificata, e hanno ridotto il nodo narrativo all’essenza più semplice e lineare, realizzando un racconto di fuga e inseguimento. A fuggire è il giovane Llewelyn Moss (Josh Brolin), che a caccia di antilopi nel deserto del Texas si imbatte sulla scena di uno smercio di droga e denaro finito male. A terra rimangono i corpi senza vita dei trafficanti messicani, un pick-up carico di cocaina e una borsa piena di dollari, che Moss decide di caricarsi in spalla. Sulle tracce di Moss e della borsa si mette Anton Chigurh – si pronuncia "sugar", "zucchero", come da facile ironia americana – (un inquietante e grottesco Javier Bardem), un killer folle e spietato dall’aria di bambino cresciuto, dotato di pistola ad aria compressa, di quelle usate per uccidere il bestiame nei mattatoi. A inseguire entrambi è lo sceriffo Ed Tom Bell (una parte che sembra cucita addosso a Tommy Lee Jones), in odore di pensione, amante di cavalli, della propria terra e della propria moglie, che vorrebbe raggiungere Moss prima di Chigurh.

No Country for Old Man descrive molto bene la crisi e la fine di un mondo, quello dello sceriffo Bell, il custode dell’ordine e della legge, e del cowboy Moss, veterano del Vietnam. Sono entrambi il relitto di un cinema non più proponibile, gli eroi dell’epopea al tramonto, ora alla prese con la venuta di un altro tipo di uomo che agisce senza motivi, senza ragioni e senza fini, e che proprio per questo non può essere sconfitto. Chiurgh è incomprensibile alle ragioni dello sceriffo. Eppure probabilmente Chirurgh non è solo. È il punto più appariscente di una più grande e frastagliata platea che si compone di miriadi di giovani, di una nuova genia che spinge per entrare in scena.

I Coen non potendo trasferire tutti i temi toccati dal romanzo (come quello della frattura procurata dalla guerra del Vietnam, che nel film non trova posto) hanno levigato e asciugato ulteriormente il racconto di McCarty. Le vecchie regole del racconto ci sono tutte, solo che sono utilizzate in modo da condurre lo spettatore in acque incerte, prive dei tradizionali punti di riferimento. A questo proposito è emblematico il lavoro sul rapporto suono/immagine. La colonna sonora è quasi assente. Il suono, a cui spesso è affidato il compito di sorprenderci, di creare una tela sottile di tensione e di guidarci verso ciò che non ci aspettiamo, è in questo caso ridotto al minimo, a pochi e flebili rumori, diretti con maestria dal sound designer Skip Lievsay (che per questo lavoro probabilmente riceverà l’Oscar). Basta il bip della trasmittente ad amplificare lo sgomento per l’assassino che si avvicina. È il silenzio a costringerci a stare in ascolto di ogni più piccolo scricchiolio che proviene da dietro la porta. È il vento che fischia nei microfoni, non un coro di archi, a rendere ancora più profondo e misterioso il paesaggio arido e spoglio del deserto texano. Se il suono si compone di richiami minimali, l’immagine recupera tutta la sua forza evocatrice. I Coen dispongono ogni inquadratura assecondando un formalismo così intenso da apparire quasi ossessivo, maniacale, nelle continue riprese dall’alto, dall’altezza dei fari della macchina (come non pensare a David Lynch?), nelle visioni spesso filtrate da binocoli, finestrini, pertugi.

Javier Bardem

Nel film dei Coen lo scontro fra lo sceriffo Bell e un nuovo mondo che sta nascendo, quello incarnato da Chigurh, assume i contorni di una nostalgica riflessione su un modo di fare cinema e su un genere di personaggi che si sta perdendo o forse si è già smarrito. I fratelli Coen traggono dal romanzo lo spunto per una introspezione sulla morte di un tipo di cinema, attraverso il genere per antonomasia, quello western. Il film ci pone davanti le nostre attese di spettatori, che, una dopo l’altra, vengono frustrate e demolite, rivelate nel loro carattere di artificio retorico. In quale personaggio del film è possibile identificarsi? Non certo nel vecchio sceriffo che non appartiene più a quel mondo. Nel giovane Moss? La sua fine non ce lo permette. L’eroe dell’epopea può anche morire, se ad ucciderlo è il killer spietato e invincibile; ma se viene assassinato da personaggi secondari, che non vediamo, che non conosciamo, e in un modo che possiamo solo ricostruire con pochi indizi, con poche immagini, come possiamo identificarci in lui? Si può accettare che l’eroe sia sconfitto dalla stupidità?

Nel cinema dei Coen i personaggi che si salvano sono spesso quelli che invece di agire si accontentano di guardare, di interrogarsi su ciò che vedono. Lo sguardo diventa una, forse l’unica, dottrina filosofica che può guidare la conoscenza, che invita alla verifica delle forme e dei limiti dell’attività umana. Ma lo sguardo da solo non è sufficiente, poiché per sua stessa definizione non può essere obiettivo. Più si guarda una cosa e meno la si capisce (come si affermava in L’uomo che non c’era). L’uomo che non c’era descriveva come negli anni cinquanta, dopo la guerra e in seguito alle sue tragiche conseguenze, avevano fatto la comparsa dei personaggi che non sapevano più come comportarsi, personaggi che «vedevano piuttosto che agire: erano vedenti» (Deleuze). Dopo un tempo incredibilmente ristretto, negli anni ottanta, in cui è ambientato No Country for Old Man, si affaccia un nuovo tipo di personaggio (o di persona?) che non si muove più come i precedenti, che non ha una dimensione psicologica, che rifugge la stessa idea di pathos o di sofferenza. I protagonisti in cui gli spettatori sono stati abituati a identificarsi per anni, gli eroi pronti a condurci verso lidi inesplorati, intenti alla ricerca di qualche santo Graal da donarci alla fine del viaggio, devono fare i conti con un essere che non avevano mai visto prima. Non si tratta però di lottare contro un mostro, contro Polifemo o Alien. Moss e Todd lottano contro qualcuno che non possono capire e non riescono nemmeno ad immaginare come sia fatto. Potrebbe essere uno psicopatico oppure un ragazzino drogato con i capelli verdi e il piercing al naso, simile ai loro nipoti. Il sistema di valori su cui si fonda la vita di Bell e dello stesso Moss sono in frantumi; ma solo lo sceriffo ne ha una lucida consapevolezza. Cade la responsabilità rispetto alle proprie azioni sulle quali non si abbatte nessun giudizio divino, nessuna nemesi. Chi è rimasto a guardare, come lo sceriffo Bell, racconta di un mondo che sta tramontando.

Alessandro Baricco aveva scelto proprio una delle frasi del romanzo No Country for Old Man come epigrafe del suo breve saggio sui "Barbari" (pubblicato a puntate su «la Repubblica» tra maggio e ottobre 2006 e poi uscito per Fandango). Alla ricerca delle tracce della mutazione in corso fra una sensibilità "romantica" e un nuovo tipo di sensibilità che respira con le branchie di Google, a cui ancora fatichiamo ad attribuire un nome, Baricco aveva rintracciato proprio nel romanzo di Cormack una traccia evidente di questo cambiamento, l’idea di morte dell’anima. È necessario abbandonare l’anima (intesta come l’insieme di gesti, di riti, che regola la creazione della tradizione), ripudiare la profondità in favore della superficie, la complessità per la facilità, la lentezza per la velocità, se si ha come unico scopo l’ampliamento del mercato. Niente può più appartenere a un ristretto gruppo di detentori del gusto: ogni prodotto, anche artistico, deve essere semplificato e privato dell’anima se si vuole raggiungere una massa globalizzata.

Come può l’arte esprimere questa mutazione senza mutare essa stessa? È anche un modo di raccontare, sotto bersaglio del killer. Sotto la sua pistola ad aria compressa è finita una possibilità di partecipare all’azione rappresentata. Un modo di identificarsi con l’altro, di interrogarsi sull’altro, di comporre un dialogo sulla differenza, sull’alterità, non è più proponibile. «Come si può parlare con uno che per sua stessa ammissione non ha un’anima?», dice McCarty nella prima pagina del suo romanzo. Uno dei due termini necessari al dialogo si è ritirato, nel senso che si è trasformato. Non si può parlare con qualcuno che non solo non parla la tua lingua, ma è una specie di alieno, venuto da un altro pianeta e un altro mondo. Senza niente da condividere per sua stessa ammissione.

Il cinema è chiamato a dare una visione a questa trasformazione o a perire. Nella mutazione del personaggio e del cinema è chiaro da che parte stanno i Coen: dalla parte di chi ancora ricerca la retorica (in senso positivo s’intende) della bella inquadratura, al costo di rischiare il manierismo; contro l’arretramento estetico dell’immagine-pixel, che propone il brutto per il vero, come unica realtà data. Che sia nei toni violenti ed eccessivi dell’horror o nei mondi fittizi e autoreferenziali del kolossal fantasy o nei docu-film che più che documentare certificano verità già rivelate, il racconto moderno diventa puro e semplice divertimento. Senza centro, senza pathos, senza più il tragico, il racconto si srotola sulla superficie delle regole del gioco. Vi è ancora la possibilità di un cinema che rifletta sul problema di cosa e come si rappresenta? Se sì, esso forse è solo un cinema nostalgico, destinato a divenire chincaglieria del XXI secolo? I Coen non danno una risposta, ma nella loro domanda vi è già una forte e salda presa di posizione.

 


Non è un paese per vecchi
cast cast & credits
 
 

Josh Brolin
 

 

 

 

 





 

 

 



 

Javier Bardem
 
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