La 39° stagione lirico-sinfonica del Teatro Politeama Greco di Lecce si è coraggiosamente aperta con Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns, unopera ‘difficile sia per il tipo di vocalità impiegata – basata su un declamato vigoroso, di ininterrotta plasticità e incentrato sulle tessiture acute dei diversi registri – sia per i problemi di messinscena connessi allipertrofismo spettacolare congenito ad una drammaturgia di confine tra grand-opéra, oratorio e musikdrama, sia, infine, per la complessità dei brani corali, lontani dalla consueta omofonia di marca operistica e contrassegnati da architetture contrappuntistiche di ardua esecuzione.
foto: Claudio Longo
Lallestimento leccese ha superato con disinvoltura tali ‘difficoltà grazie alla valentìa canora di un cast preparato e soprattutto grazie ad una compagine corale (Coro lirico di Lecce diretto da Francesco Pareti) straordinaria per equilibrio interno, compattezza, precisione negli attacchi e nellintonazione. Mai come in questo lavoro il coro, autentico personaggio collettivo, riveste una responsabilità centrale ai fini del felice esito dello spettacolo: nelle due recite leccesi lascendenza oratoriale del Samson – che, secondo le didascalie originali, faceva cantare il coro dIntrodzuione «derrière la toil» e quello posto ad apertura del III atto «dans la coulisse» – veniva di molto smussata: i coristi agivano infatti accanto ai personaggi del dramma con una forte presenza scenica, aumentata dalla scelta, condivisa dal regista-scenografo Stephan Gröler e dalla costumista Veronique Seymat – di far coincidere i giudei veterotestamentari con le vittime della Shoha: limpressionante coro iniziale si ambientava così in un cantiere dove ebrei prigionieri guardati a vista da aguzzini in divisa pseudo-nazista erigevano un muro di mattoni. Limpatto emotivo della scenografia era incrementato dal contrasto, netto, che si veniva a creare tra gli abiti degli ebrei, Sansone compreso (il potente e lodevole tenore Dongwon Shin), allinsegna di una quotidianità dimessa, e i costumi dei malvagi (la femme fatale Dalila – lottima Anna Rita Gemmabella – e il grande Sacerdote, laltrettanto ottimo Johann Werner Prein) vagamente ispirati ora ad ancelle orientali, ora ai satrapi dellantica Gaza (ma anche, a voler tentare una lettura in chiave anticlericale, ad abiti talari).
foto: Claudio Longo
Purtroppo la necessità di mantenere il cupo impianto scenico iniziale anche negli atti successivi ha comportato uneccessiva cupezza e una forte stasi a livello registico: se infatti il ponteggio del cantiere del primo atto nel terzo poteva ben funzionare come prigione di Gaza prima e come tempio di Dagon poi, quando, nel secondo atto, doveva invece alludere al porticato della dimora di Dalila inficiava la sensualità di quella straordinaria scena di seduzione canora attorno alla quale ruotava lintera opera. La regìa stessa qui pareva volersi mettere da parte per lasciare campo libero al puro canto e probabilmente i movimenti impacciati di Samson e Dalila erano intenzionali e congeniali a trasformare i due personaggi in voci più che in corpi. Il fascino della corporeità era semmai delegato alleccezionale Balletto del Sud impegnato nelle coreografie di Fredy Franzutti che per la Danza delle sacerdotesse di Dagon e per il celebre Baccanale – emblema dellesotismo musicale che esploderà allo scadere dellOttocento – hanno puntato ad una geniale ibridazione tra figure di danza classica e passi di balletto sperimentale.
La componente luminotecnica, piuttosto trascurata, ha avuto la sua parte solo nella scena finale dove giochi di luci proiettate sulluditorio simboleggiavano il crollo del tempio filisteo. Magistrale la direzione di Vincent Barthe a capo dellorchestra Tito Schipa di Lecce, per la capacità da un lato di assicurare omogeneità di fraseggio ad ampie unità musicali e dallaltro di curare il dettaglio senza perdersi nei particolari di una partitura quanto mai densa sul piano dellorchestrazione.
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