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Giocarsi la vita

di Roberto Fedi
 
Data di pubblicazione su web 03/02/2008  

Ad un’ora impossibile (quasi mezzanotte, con durata fino alle una), su Rai Tre il giovedì va in onda per un mese uno dei programmi più belli di questo inizio di anno, almeno a vedere la prima puntata. È una serie, Doc3, che presenta documentari – ma chiamarli così è riduttivo: testi d’autore, piuttosto – sulla vita di oggi. A vedere quello che è andato in onda il 31 gennaio si resta impressionati.

È un testo d’autore, come dicevamo. E che autore, anzi che autrice: Loredana Dordi, della quale già abbiamo parlato in passato per due sue opere memorabili, sulle schiave di strada e sul lavoro. È, a nostro parere, una delle voci più serie e autorevoli, e tali proprio perché dolenti, della televisione di oggi – anche se i suoi lavori vanno ben al di là di un semplice uso televisivo. Lavora artigianalmente, muovendosi e andando là dove pochi arrivano. Ne ricava opere fondamentali per capire le pieghe dolorose, o almeno drammatiche, della vita paludosa e inesplorata che ci circonda.

La vita in gioco è dedicata al vizio del gioco (ma anche chiamarlo così è riduttivo per capire il fenomeno straziante del gioco d’azzardo). Ogni tanto se ne parla, spesso in cronaca, per informare di qualche bisca chiusa dai carabinieri, di qualche bar con slot machines sul retro (i giocatori le chiamano ‘macchinette’) il cui proprietario è stato arrestato. È la punta di un iceberg che ha, sotto, vite stravolte, famiglie distrutte, disperazione.

Loredana Dordi non è una semplice inviata nell’inferno contemporaneo È un’autrice, e come tale non si limita a documentare un fenomeno. Lo fa vivere artisticamente sotto i nostri occhi, attraverso le testimonianze pacate, ma disperate, dei protagonisti o delle loro famiglie. Come in Vite violate, eccezionale documento che – lo dicevamo nella nostra nota d’allora: Ombre – sarebbe da far vedere nelle scuole, anche qui la camera non cerca l’eccezionalità, o il sensazionalismo di immagini ad effetto (sarebbe stato facile: una bisca, qualche angolo sordido). Crea colori forti e sfumati, sempre notturni (il gioco d’azzardo è di per sé un evento che si porta dietro come compagna ineliminabile la notte), o immagini in movimento orizzontale: treni di notte, in viaggio verso il nulla; onde con riflessi di luce, come di una barca silenziosa che va verso la distruzione di un Casinò. Suggerisce, con questo significante, il significato di vite perdute  nell’abisso e nello sprofondo di gesti sempre uguali e sempre suicidi, in cui non c’è possibilità di luce nemmeno alla fine del tunnel.

Le testimonianze, tutte anonime (e tanto più forti: qui l’anonimato non è un velo, è l’opposto, un megafono che urla nel buio), sono fotografate in chiaroscuri, o in silouettes da ombra cinese su sfondi bianchi e abbaglianti, o dietro a tendine che le tagliano some coltelli. Sono pacate e tragiche, sono mogli che raccontano torcendosi le mani di famiglie rovinate, di mariti ormai senza più parole e solo vivi nel momento del gioco, di debiti, di notti insonni senza speranza, di figli senza futuro. Una sola donna, di spalle al buio, racconta in prima persona la sua dannazione.

I protagonisti sono così le donne. Come sempre nelle opere della Dordi, sono in primo piano le vittime: di poveri uomini, i mariti, scavati nel profondo, astratti, rubati dalle carte o dalle ‘macchinette’. Nessuna grandezza, nessun Casinò, nessuna Las Vegas. Solo retrobar bui, stanze piene di fumo, strozzini. Anche qui, le donne appaiono come il baluardo positivo di mondi in bilico sul baratro, di vite svuotate, di famiglie disarticolate, che loro eroicamente cercano di tenere insieme, per dare un senso decente a vite esplose. Una speranza, in un mondo calmo ma disgregato, senza ragione, senza domani.

Infine, una nota positiva e una perplessità. Il testo non è brutalizzato dalla pubblicità (forse per l’ora tarda, e comunque meno male). L’opera è presentata, per imperscrutabile disegno della Rete, da Fabio Volo, che intervista brevemente un inutile sociologo. Non si capisce il perché. Con tutto il rispetto, sarebbe come se Il giocatore di Dostoevskij fosse prefato da Piero Chiambretti. Ma forse alla Rai più di tanto non si può chiedere.








 
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