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La purezza della montagna, la corruzione della pianura

di Paolo Patrizi
  Tiefland
Data di pubblicazione su web 26/01/2008  
L’estetica verista attecchiva poco o niente, all’inizio del Novecento, nel teatro musicale tedesco, essenzialmente proiettato – prima grazie a Strauss, poi ai suoi epigoni di maggior talento – verso suggestioni decadenti e simboliste. C’era però nel teatro di prosa almeno l’autorevole precedente di Hauptmann, capace di dar vita a una drammaturgia naturalista in cui lo studio d’ambiente, la denuncia sociale e un approccio positivista alla Zola venivano filtrati attraverso una sensibilità tutta germanica; ed era forse inevitabile che a raccoglierne gli stimoli fosse un musicista come Eugen d’Albert: non il più grande, tra i compositori tedeschi di quel periodo, ma il più aperto all’eclettismo, nonché il più cosmopolita per formazione e vicende personali.

Coetaneo di Strauss (1864), nato in Scozia da famiglia tedesca con avi italiani e morto Riga con un passaporto svizzero in tasca, studi musicali prima a Londra e poi in Austria e Germania, D’Albert fu anche allievo di Liszt, trasformandosi così in un altissimo virtuoso del pianoforte. Aveva davanti a sé una carriera concertistica ai massimi livelli, ma la musa della composizione lo allettò tanto da sottrarlo a quella dell’esecuzione: ne scaturirà un fitto catalogo di lavori sinfonici e cameristici (in cui però, curiosamente, la letteratura pianistica ha uno spazio limitato), ma soprattutto una ventina di titoli operistici, all’insegna dei più diversi registri espressivi.

Tiefland
(foto di Markus Lieberenz)

La mancanza di un denominatore comune – si passa dai drammoni a tinte forti alle piccole opere da camera, dai drammi simbolisti alle commedie musicali a sfondo satirico – ha rappresentato un freno alla ricognizione critica intorno a questi lavori: si è preferito vedere in d’Albert un prolifico cuciniere delle più disparate sollecitazioni drammaturgiche, piuttosto che un autore con un personale ‘pensiero’ musicale. È probabile che non gli sia stata resa giustizia: la fiducia nel teatro in se stesso, senza bisogno di una griglia estetica in cui preventivamente riconoscersi, rappresenta già una presa di posizione, e tutt’altro che qualunquista. Resta fermo però che, nonostante una manciata di successi, la sua fortuna di operista è oggi legata solo a Tiefland (1903, seconda e definitiva stesura due anni più tardi), appunto uno dei rarissimi casi di dramma musicale tedesco a sfondo verista.

Mai uscito di repertorio in Austria e Germania, ma titolo per pochi intimi presso i melomani di casa nostra (il fatto che l’abbia cantato la Callas, sia pure solo ad Atene, lo rende però familiare ai callasiani), Tiefland coniuga un impianto orchestrale wagneriano a una cantabilità ariosa che potremmo definire latina. Tuttavia la pletoricità del primo (grande rilievo a legni e ottoni) non esclude una raffinatezza timbrica che in certi momenti sfiora la rarefazione, mentre la suadente orecchiabilità della seconda si alterna a momenti di crudo declamato. Insomma un’opera musicalmente bifronte, e in questo speculare al suo nocciolo drammaturgico: la purezza incontaminata della montagna (siamo sui Pirenei) e dei pastori che la popolano versus la corruzione della pianura (il Tiefland, ovvero "terra bassa", del titolo) e la malvagità dei suoi abitanti. Ne scaturisce una storia di ruspanti eroismi montanari e perfidi inganni valligiani, con figure maschili stereotipate ma icastiche – il tenore candido e coraggioso, il baritono violento, il basso anziano e saggio – e una protagonista in cui, invece, la psicanalisi già fa capolino: una 'diversa' (balla girovaga nelle piazze) da considerare una donna di tutti, e con una propensione al masochismo che la farà innamorare del protagonista solo quando questi la ferisce con un coltello.

Tiefland
(foto di Markus Lieberenz)

Fin troppo ovvio fare i nomi di Mascagni, Leoncavallo o del Giordano di Mala vita. Tiefland non poté ignorare questi modelli (anche Janáĉeck, per la pressoché contemporanea Jenufa, ammetterà un debito d’ispirazione verso Mascagni), ma rispetto ai colleghi italiani d’Albert mostra migliori qualità di paesaggista – magnifico il preludio, con clarinetto in primo piano, chiamato a descrivere l’alba pirenaica – e minori capacità come cantore di una tranche de vie a tinte crude. Senza contare che il momento di più alto tasso motivo, ovvero il racconto della protagonista (un’allucinata cantilena in tonalità minore), sembra essere dettato da una sensibilità espressionista più che verista. Stando così le cose, questa nuova produzione della Deutsche Oper di Berlino centra il bersaglio: la regia di Roland Schwab ha un impianto tutt’altro che realistico, mirando piuttosto a sottolineare il retrogusto simbolico dell’opera.

Ecco dunque gli abitanti del Tiefland truccati come maschere mortuarie, la scenografia concepita come un piano inclinato ripidissimo che trasporta i personaggi dalla montagna alla "terra bassa" e gli stessi spettatori messi a far parte di quel crudele microcosmo: quella sorta di calata agli inferi che sarà, per il montanaro Pedro, il trasferimento nella vallata viene realizzata attraverso la sua discesa in platea. Come spesso accade nel regietheater tedesco, il risultato è una messinscena a tratti didascalica (la metafora, su cui il libretto insiste spesso, dell’uccisione del lupo come sconfitta della malvagità viene illustrata, quando il tenore strangola il baritono, con la presenza di tanti lupi morti in palcoscenico), o almeno del tutto restia alla poetica dell’ellissi e dell’implicito: ma la coerenza e l’efficacia dello spettacolo sono indubitabili.

Yves Abel dirige evidenziando soprattutto i pregi architettonici della partitura (i vari Leitmotive vengono perfettamente enucleati, lo scandaglio ritmico-timbrico è accuratissimo), senza che l’analiticità della sua lettura sottragga nulla all’opera in termini di carica teatrale. E dal palcoscenico è arrivata un’eccellente risposta da parte di tutti: il tenore Torsten Kerl, che può contare su mezzi freschi e squillanti, convince nelle effusioni liriche come negli slanci eroici, dando vitalità e coerenza a quella sorta di 'puro folle', senza ovviamente gli affondi mistici di Parsifal, che è Pedro; Egil Silins, voce chiara ma robusta, è costretto nel cliché del baritono cattivo, che comunque risolve con un piglio oltremodo accattivante; ma soprattutto domina la protagonista femminile. Pur sostituendo la collega titolare, Anna-Katharina Benke ha conquistato per bellezza e magnetismo scenico, accoppiati a una voce non priva di tensioni in acuto, ma trasfigurata da un calore di fraseggio e una ricchezza di accenti da vera grande artista.

Tra i pregi di Tiefland c’è poi quell’autentico caleidoscopio che è la galleria dei personaggi di fianco. Dato il peso che svolgono nella vicenda, spiccano il basso Roland Schubert (il vecchio che, in nome della fedeltà a un ordine costituito, sembra avallare le vessazioni perpetrate dal mondo dei 'cattivi', ma poi se ne ritrae inorridito) e Jacquelyn Wagner che, in una parte di soprano lirico-leggero antitetica alla vocalità drammatica del soprano protagonista, incarna la barbona Nuri, ideale collante tra il microcosmo dei monti e quello del bassopiano. Ma anche i ruoli più comprimariali vengono svolti a regola d’arte: il baritono Simon Pauly, nei panni del garzone Moruccio, supera le insidie d’intonazione di un declamato spesso 'a cappella'; il tenore Paul Kaufmann, in quelli del pastore Nando, illustra efficacemente – quasi fosse un folletto delle montagne – il proprio memento contro i pericoli del tiefland; e il terzetto delle beghine (Ditte Andersen, Andion Fernandez e Nicole Piccolomini) è divertente e sinistro come si conviene. È al loro cicaleccio, d’altronde, che d’Albert affida uno dei temi che meglio s’insinuano nella memoria dell’ascoltatore.



Tiefland
Dramma musicale in un prologo e due atti


cast cast & credits
 

 

Deutsche Oper Berlin



 


 


Tiefland
(foto di Markus Lieberenz)

 

 



 

 

 


 




Tiefland
(foto di Markus Lieberenz)





 

 
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