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Gli anni Settanta di Lucas

di Marco Luceri
  American Gangster
Data di pubblicazione su web 19/01/2008  
Gli anni Settanta di Frank Lucas, ricostruiti mirabilmente da Ridley Scott nel suo ultimo American Gangster, furono un periodo davvero memorabile. Chi ha avuto la fortuna di leggere qualche tempo fa lo splendido reportage di Mark Jacobson (appena uscito anche in Italia, edito da Einaudi) sul più grande trafficante nero che la storia di Harlem abbia mai conosciuto sa di cosa sto parlando: il pezzo si chiamava Il ritorno di Superfly ed è il testo da cui è partito il lavoro di sceneggiatura del film di Scott, scritto da Steve Zaillian e prodotto da Nick Pileggi (ex-reporter che si occupò all’epoca del processo Lucas, criminologo dilettante e collaboratore di Martin Scorsese in due gangster-movie che hanno fatto la storia del genere, Quei bravi ragazzi e Casinò).



Gli anni Settanta di Frank, l’unico vero erede di Bumpy Jonhson, erano quelli in cui lui si appostava sull’angolo fra la Centosedicesima Strada e l’Ottava Avenue, a bordo di una sgangherata Chevrolet da lui ribattezzata Nellybelle. Nessuno, per molto tempo, sospettò che quell’uomo dall’aspetto così comune, il più delle volte travestito per non farsi riconoscere, abitava in una lussuosissima suite del Regency Hotel su Park Avenue, era sposato con Miss Puerto Rico e dirigeva il più imponente traffico di droga tra il Vietnam e New York. Nessuno, appunto, perché il piano di Frank era così semplice da essere geniale: saltare i mediatori, andare di persona a rifornirsi nell’Estremo Oriente invaso dalle guerre e in mano ai signori della droga, e portare la "roba" sugli aerei militari che riconducevano a casa i figli dell’America, quelli che avevano dato la vita per esportare la democrazia.



Gli anni Settanta di Frank sono quelli di una tragica e azzeccatissima metafora della morte che arriva con la morte: le bare portano l’eroina che distruggerà la vita di migliaia di persone, la celebre Blue Magic, che arriva con la bandiera a stelle e strisce ancora calda delle cerimonie funebri e delle loro solennità. Solo che la Blue Magic è diversa, è roba buona davvero, pura al novantotto per cento e costa la metà. E poi ci sono i fratelli di Frank, di quelli sì che si ci può fidare, perché gente di provincia, e quindi leale, perché non abituata a maneggiare bigliettoni e strafighe. Un po’ come fanno gli italiani, insomma, per cui la sacralità della famiglia è il vero Vangelo della fedeltà. Roba da un milione di dollari al giorno, con la Blue Magic.



Gli anni Settanta di Frank sono gli anni del marciume americano, quello che poi non è mica scomparso, anzi. E’ lì ancora oggi, sempre lo stesso: presidenti che dicono in tv che tutto va bene ed è sotto controllo, quando l’America vera va a morire dentro e fuori i confini, ricoperta dalla vergogna delle menzogne; poliziotti che fanno i gradassi per le strade e poi si fanno beccare a trafficare con il crimine (tre quarti della Sezione Antinarcotici della polizia di NY fu arrestata alla fine delle inchieste che smantellarono, dopo quella di Frank, tutte le altre organizzazioni criminali della città); i poveri miserabili che si strafanno negli appartamenti e nelle strade anonime del sogno americano fallito.



Gli anni Settanta di Frank hanno, nel film di Scott, la faccia di Denzel Washington, in quella che probabilmente è la sua più importante prova da grandissimo professionista qual è. Eccolo il suo Frank, un metro e ottantacinque, di bell’aspetto, sveglio e alla moda, pronto all’azione. Il volto che si muove pochissimo, l’espressione arcigna, la maestria nel creare un’interpretazione perfetta nella mimesis tra attore e personaggio, in tutti gli aspetti: movimenti sulla scena, con gli oggetti, con gli altri attori; una partitura perfetta e misurata di grande intensità emotiva. E’ la grande stoffa, insomma, quella che manca all’altro ragazzaccio del film, Russell Crowe, costretto, nei panni del detective Richie Roberts, a interpretare un personaggio stereotipato che tanto deve al Pacino di Heat - La Sfida (di Michael Mann), tant’è che il buono stavolta lo è davvero, visto che non intasca tangenti e mette su una squadra di uomini sgangherati ma efficientissimi nel lavoro più difficile, l’onestà.

Gli anni Settanta di Frank sono gli anni degli american gangster, è vero. Perché i gangster non possono che essere americani e, sebbene il film di Ridley Scott non abbia, in fondo, il respiro epico di Scorsese o quello vintage di Tarantino, e non so se poi in fondo sia un demerito, ha quello fresco delle foto da lui realizzate, da studente, proprio ad Harlem alla fine dei Sessanta. Ha il sound della blaxploitation, quello di Across 110 Street, della morale, fuori dalla morale, degli spacciatori. E quella di Frank, naturalmente.

American Gangster
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