Il teatro del Grande Attore è morto, il teatro del Mattatore è morto, il teatro di Regia è morto, viva il teatro del Mattatore. E' tornato, soprattutto negli ultimi anni, liberato dei risarcimenti intellettualistici da cui aveva voluto in parte farsi proteggere, il Mattatore Gabriele Lavia. Ed è un bene per il teatro. Il Mattatore Lavia lenisce molte patologiche debolezze del teatro contemporaneo.
I Professori in genere (non tutti) amano il teatro della sofferta regia e dellimpenetrato sottotesto, quel teatro insomma che giustifica – più che lesistenza di spettatori – lesistenza di loro stessi: quei critici, teorici, ideologi, analisti dello spettacolo che non avrebbero ragione di esistere se il teatro stesso non si proponesse come fautore di problematiche innanzitutto intellettuali e teoreticamente ponderose. Quando Silvio dAmico scrisse Il tramonto del grande attore (1929) aveva in mente un modello di scena in cui il governo di persone e azioni sul palcoscenico avrebbe dovuto essere affidato allAutore o, nella peggiore delle ipotesi, al Regista. Così è stato per gran parte della seconda metà del Novecento, quando la dittatura registica (in alcuni casi con piena gistificazione di merito, in molti altri con arrogante impostura) ha prima schiacciato e poi spazzato via (verso il cinema, ad esempio) alcuni insubordinati talenti della recitazione che non erano stati capaci di subire silenziosamente quel glorioso diktat. Il regista è stato il supplente dello scrittore. Autore vicario ma sempre Autore, e con la A maiuscola.
Più di recente, in sul finire del secolo, molti attori si sono ammutinati. Alcuni si sono messi in proprio a fare i registi o gli autori-registi, ora con una infelice imitazione subalterna del regista dittatore, ora con lintelligente sensibilità del suddito-attore diventato padrone. Gabriele Lavia, regista, primo attore e capocomico, fa di più, o forse di meno: adegua alle sue esigenze di attore-mattatore tutte le risorse della regia e, attraverso la riproposta di un classico del teatro-nel-teatro quale Misura per misura di Shakespeare, dimostra che si può costruire un complesso scenico e attoriale di dignitoso livello intorno ad una manifestazione di istrionismo di forte fascino.
Gabriele Lavia usa come si deve usare la storia del Duca che lascia il trono per travestirsi da monacello e così recitare, in incognito, una parte per lui inedita fra i suoi sudditi, per arrivare finalmente a smascherare i cattivi e premiare i buoni del suo Regno, meglio di come non avrebbe potuto fare restando saldamente in sella al trono. Shakespeare sapeva che in questo modo, oltre ad impartire qualche meditata lezione morale ai suoi attenti spettatori, avrebbe creato una bella macchina narrativa, oltre che rappresentativa. Sapeva che non sarebbe stato lideologico metateatro che avrebbe colpito la sua platea ma la moltiplicazione dei punti di vista, il variare dei livelli di recitazione: il Duca sarebbe stato ora se stesso, ora il suo doppio, ora avrebbe dovuto adattare la sua recitazione alle sorprese di una trama tortuosa.
La lettura di Lavia forse non piacerà ai cultori delle letture organiche e sottotestuali, ai raffinati adoratori dellideologia metateatrale: se questo fosse stato il suo fine, Lavia avrebbe fallito. Piace invece a chi, come chi scrive, cerca ancora nel teatro le tracce di unarte (artigianato) densa di umori primari, di emozioni elementari tanto artificiose quanto autentiche: insomma, prima di tutto, la recitazione.
Lavia fa di se stesso uno strumento polifonico e duttile: è un raisonneur allantica quando, allinizio e alla fine dellopera, spiega e illustra le ragioni del suo operare e della trama; è un attore di stampo drammatico (affiora una sonorità dimessa e pensosa che ricorda quella di Glauco Mauri) quando si avventura nei meandri dellintreccio serio; è un comico brillante (sfavillano guizzi che ricordano il cabaret) quando coltiva la seduzione sotto lusbergo della tonaca; è un brillante brechtiano quando recita, con un dettato leggero e scandito, i siparietti di minima moralia sulla vita e sulla morte che Shakespeare ha disseminato nel testo.
Così facendo rende un ottimo servizio a questa tragicommedia così multiforme e composita, ma soprattutto tiene sveglia lintelligenza e la curiosità dei suoi numerosi e plaudentissimi spettatori. I quali, peraltro, non hanno occasioni per allentare la loro attenzione, visto che il tempo dello spettacolo – pur assai lungo – è ritmato da un intelligente e svelto “montaggio” delle scene: un efficace uso delle quinte mobili, un ricorso disinvolto alle parades di ribalta o alle entrate-uscite dalla sala, stacchi musicali in un stile rock-punk di maniera, il ricorso ad una telecamera leggera, tipo stadycam. Come volgarizzare Shakespeare senza tradirlo.
La consecuzione delle azioni e i tempi di narrazione si dipanano con agilità, mentre gli attori sono tutti ritmicamente a posto, con gli accenti grotteschi che si alternano a quelli parodici, il triviale deliberato che si annoda con il calcolato moralismo. E uno spettacolo che sarebbe piaciuto ad Aldo Trionfo, Maestro di questo tipo di regia, sfortunato per essere vissuto allepoca del trionfante razionalismo (che noi comunque ammirammo in Strehler e Squarzina, e continuiamo ad ammirare in Castri e Ronconi), ma vero anticipatore di ogni regia post-moderna. Linea perdente nel ranking che si può leggere nellAgenda del Professore di teatro, ma vincente nelle vene di chi ama il teatro.
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