Molte sono le novità con cui ci viene proposta lincompiuta opera pirandelliana in questa edizione proposta da Federico Tiezzi: in primis il finale, che è stato scritto da Franco Scaldati, ma anche linterpretazione globale che viene data del testo e che lo stesso regista spiega nelle sue note di regia.
Tiezzi dichiara di prendere le mosse da Giovanni Macchia e dal suo La stanza della tortura che spiega come, per il drammaturgo siciliano, la stanza sia la sede dei vizi, dei peccati segreti che solo in teatro potranno essere mostrati, contemplati e, quindi, giudicati. È vero che il critico letterario si riferiva soprattutto ad altre delle opere di Pirandello (si pensi alla Cariola…), ma per il regista questo vale anche per i Giganti, anchessi «in fondo, un testo sulla tortura».
La strana villa in cui si ambienta lopera, piena di prodigi, sarebbe poi, tout court laldilà. Certo nel testo le giustificazioni non mancano, a partire dal discorso della Sgricia che dichiara convinta di essere nel regno dei morti. Spingendosi oltre nelle sue ipotesi, Tiezzi ci invita a seguire le parole di Cotrone e quindi ci ricorda che non è necessario «credere» ciò che egli scrive nelle sue note di regia, ma è sufficiente «accoglierlo». I due gruppi di personaggi, dunque, i sei Scalognati − che vivono nella villa abbandonata − e i sei membri della compagnia della Contessa − che lì arrivano senza sapere il perché − sarebbero solo in due stadi diversi: i primi morti da gran tempo, i secondi, da appena due giorni.
Ancora: il gruppo della Contessa rappresenterebbe, naturalmente, il mondo del Teatro, mentre quello degli Scalognati sarebbe il mondo del Cinema. Tiezzi arriva poi ad ipotizzare che il terzo gruppo, quello dei Giganti della Montagna − che non appare direttamente in scena, ma che pure dà il titolo allopera − fatto da gente rozza, capace di sconfiggere teatranti e Scalognati, sia il simbolo della Televisione. Ecco allora che il finale, scritto in siciliano da Scaldati sulla base delle note del figlio di Pirandello, Stefano, che racconta la morte della contessa − che si era azzardata a recitare la sua Favola del figlio cambiato nel regno dei Giganti − , si conclude con limmagine di un televisore rotto, e sulle note di Je ne regrette rien di Edith Piaf.
Tiezzi mette in scena i Giganti rimanendo fedele al testo e alle didascalie pirandelliane. Certo nel suo spettacolo il monologo della Sgricia, interpretata da Marion dAmburgo, viene ben evidenziato e sottolineato dal Cotrone-Lombardi. Ma non ci sono semplificazioni che riescano a farci seguire linterpretazione sopra illustrata. Le scene di Pier Paolo Bisleri mostrano un telo verde brillante a significare il prato richiesto dal testo, mentre fondali dai colori “forzati” ricordano gli spettacoli di Bob Wilson. Colori più caldi contraddistinguono i costumi disegnati da Giovanna Buzzi, che rimandano, secondo le intenzioni del regista, al mondo dello spettacolo. Gli Scalognati, in particolare Cotrone, hanno dunque abiti dai toni circensi (Tiezzi pensava infatti anche al circo, e al cinema del Fellini di Ginger e Fred): “Il mago” ha il viso truccato di bianco e i pantaloni a strisce bianche e nere, oltre al suo solito fez rosso.
Il cast è guidato da un Sandro Lombardi che ben incarna il mago sicuro di sé e dei suoi poteri e in questo senso convince il suo tono leggero, mai forzato, tendente allironico. La Contessa è interpretata da Iaia Forte, che prende la parola, con il suo celebre monologo da attrice, con fare declamatorio e mantiene un registro simile anche nel resto dello spettacolo. Brillante è invece Massimo Verdastro nei panni di un Cromo dinamico e vivace.
Non mancano dunque elementi di interesse per questo classico del teatro italiano. Talento e serietà contraddistinguono il lavoro di tutti gli artisti. Manca però qualcosa: la magia della villa incantata è soltanto indicata e non propriamente rappresentata; i fantocci sono troppo goffi per essere dei «prodigi»; le apparizioni, qui ridotte a cartoons (disegnati da Antilena Nicolizas), non riescono a creare «fantasmi». Tutto è preciso e ben eseguito, niente è lasciato al caso, le immagini sono sempre ben equilibrate. Una pièce bien faite si sarebbe detto nellOttocento.
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