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L'ultima cena

di Emanuele Nespeca
  "L'abbuffata"
Data di pubblicazione su web 19/11/2007  
"Registi che fanno gli attori, attori che fanno i registi… in Italia ormai non ci si capisce più niente…", la confusione regna sovrana sia nella testa del personaggio che dice questa frase, interpretato da Diego Abatantuono, sia nel nuovo film di Mimmo Calopresti, sia appunto in generale nel cinema che si continua a fare in Italia. L’autore di origine calabrese ci ha abituato ad un cinema complesso, intellettuale, difficile e affascinante al tempo stesso, raccontando sempre storie che si riflettono, si ripiegano, s’infilano non facilmente nei meandri più profondi della coscienza umana. Ma questa volta il regista ha osato probabilmente troppo, scegliendo di convogliare all’interno di un unico film tutti quei dubbi e quelle problematiche che riguardano la nostra società, il nostro cinema e infine (come in un’autobiografica seduta di psicoanalisi) noi stessi in quanto autori.




L’abbuffata racconta fondamentalmente le peripezie di tre giovani provetti registi (Paolo Briguglia, Lele Nucera e Lorenzo Di Ciaccia) che, nel tentativo di realizzare il loro primo film, cominciano ad esercitarsi riprendendo con la telecamera persone, paesaggi e azioni della propria città. Estratti di vita reale girati con una videocamera "amatoriale", quindi, si mescolano fin dai titoli di testa alle sequenze narrative del plot principale, girate in pellicola con macchina da presa. In questo modo ed è questo il messaggio, dall’ameno quanto bellissimo paesino della Calabria dove "non accade mai niente", escono fuori volti ed emozioni nascoste, grezze al punto da farci ricordare nostalgicamente che il cinema più bello è forse quello ingenuo, quello naturale, quello che accade tutti i giorni davanti ai nostri occhi. Sono i racconti della nonna, in fondo, i primi film che vediamo da bambini. Eppure in questi squarci di reale c’è qualcosa di finto che non convince appieno, qualcosa che troppo rapidamente scivola dal documentario alla fiction. E la confessione intervista della vecchia zia zitella, ancora in attesa dopo quarant’anni del ritorno del suo giovane amante emigrato in America, diventa solo il pretesto perfetto su cui costruire la finzione del film e sconvolgere di conseguenza la tranquilla vita cittadina.


 

Dalla banda del paese al cinico regista "guru" (Diego Abatantuono) ritiratosi a vita di contemplazione, dalla commessa di cui tutti s’innamorerebbero (Elena Bouryka) al professore d’inglese (Nino Frassica), dal parroco alla barista (Donatella Finocchiaro), per finire alle stelle del mondo del cinema (interpretate dallo stesso Calopresti insieme alla sua ex compagna Valeria Bruni Tedeschi), tutti rimangono intrappolati dall’illusoria magia del sistema cinematografico. E anche la grande star (Gérard Depardieu), che ha accettato generosamente di atterrare in Calabria per girare questa fatidica e improvvisata opera prima, muore sul divano davanti alla televisione, davanti al "Porta a Porta" di Bruno Vespa, annientato dal pieno vuoto che nemmeno una vera e sana "abbuffata" riesce a colmare. Quei tavoli dove poco prima era imbandita una pittoresca ultima cena, rimangono infine vuoti perché un vento diabolico (deus ex machina) soffia sulla città, soffia sul film, liberandolo d’inutili burattini e la macchina da presa intensamente sorvola il set mostrandoci il mare di Diamante. Tutti sogniamo il cinema, ma a volte preferiamo rimanere incantati dall’immagine del mare che, sulle note della bella colonna sonora composta da Sergio Cammariere, ci ricorda la nostra ineluttabile consistenza.



L’abbuffata rientra nella categoria del metacinema, ovvero di quei film che parlano del cinema e della sua rappresentazione. Purtroppo l’intrigante operazione da un lato non raggiunge i livelli poetici e drammatici di opere simili, dall’altro non riesce nemmeno a mantenere quel registro ironico grottesco a cui si richiama fin dal titolo, che cita La grande abbuffata di Marco Ferreri. Gli elementi che dovrebbero essere i punti di forza della narrazione rischiano di indebolire la credibilità della vicenda, nell’ordine: la combinazione tra pellicola e digitale pur giustificata dal contesto non spezza il ritmo ne raggiunge diversi registri stilistici, le deviazioni surreali del racconto non destabilizzano la storia quanto ci si aspetterebbe e infine la critica al mondo cinematografico italiano non è graffiante e rabbiosa come quella che potrebbe rappresentare un vero aspirante regista (frustrato). Lo spettatore, infatti, potrebbe pericolosamente allontanarsi dalla proiezione di questa pellicola con la sensazione che chiunque possa e debba fare cinema, senza riflettere sul come ed il perchè. A difesa del film potremmo portare il fattore "low budget", ma la scarsità di mezzi è risultata sempre il motore vincente del nostro povero cinema e non può essere un palliativo per un autore affermato come Mimmo Calopresti, qui al suo quinto lavoro. Il consiglio, per chi non l’avesse mai visto, è quello di andarsi a ricercare un piccolo "meta" film, veramente indipendente, di qualche anno fa ma ancora attuale, dal titolo Il Caricatore, girato dal trio Cappuccio, Nunziata e Gaudioso.


L'abbuffata
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