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Senza operetta, ovvero l'altro Offenbach

di Paolo Patrizi
  Die Rheinnixen
Data di pubblicazione su web 22/10/2007  

Quando la scoperta di un lavoro dimenticato scompagina la percezione che il pubblico aveva di quell'autore, si può parlare – per una volta a ragion veduta – di "operazione culturale". È quello che è accaduto a Bolzano, una delle tante periferie dorate dell'Italia musicale che costituiscono un antidoto ai troppi finti "grandi eventi" dei nostri palcoscenici operistici maggiori. Ecco dunque in "prima" italiana (ma dopo le due recite nel capoluogo altoatesino non sono previste riprese in altri teatri) Die Rheinnixen, ovvero, come il suo autore avrebbe desiderato, Les Fées du Rhin: insomma quelle Fate – o, meglio, Ondine – del Reno che nel 1864, per la prima e unica volta, trasformarono Jacques Offenbach da compositore di operetta e opéra-bouffe in creatore di una grande "opera romantica in quattro atti" di taglio epico-fantastico, occhieggiante, con qualche decennio di ritardo, al Weber di Oberon e al Lortzing di Undine.



Lavoro più mimetico che nato da una reale urgenza espressiva (nel 1864 certi afflati veteroromantici dovevano apparire fuori tempo massimo), e dove la vena patriottica che innerva il soggetto sembra soprattutto un pedaggio al momento storico (l'unificazione della Germania era ormai alle porte...), Die Rheinnixen conferma però l'eclettismo stilistico e l’altissima fattura della musica di Offenbach. L'opera nacque sfortunata: concepita in francese, poi riadattata in tedesco e in questa veste andata in scena a Vienna, ma in forma gravemente mutilata a causa dell'indisposizione del tenore protagonista. Ne sortì poco meno di un fiasco, che tuttavia lasciava intuire le potenzialità di un lavoro ben altrimenti affascinante, se acconciamente eseguito; ma non se ne presentò più l’occasione. Offenbach si rituffò nell'attività di compositore "leggero", limitandosi a travasare il tema delle ninfe e degli elfi (di conio puramente strumentale nell'Ouverture, e trasformato in coro nel terzo atto) nei Racconti di Hoffmann, dove, senza alcuna modifica né melodica né armonica, esso divenne la celeberrima Barcarola dell'"atto veneziano". Ma i Racconti andarono in scena postumi, e Offenbach non poté mai sapere del successo planetario che arrise a questa pagina nata per le sue sfortunate fate del Reno: una pagina, peraltro (e questo possiamo dirlo solo adesso), più adatta a descrivere il magico mondo delle Rheinnixen che a contrappuntare il canto di una cortigiana veneziana.



L'opera è stata riscoperta qualche anno fa in Francia, ma in forma di concerto: solo nel 2005 si è arrivati alla prima ripresa moderna in forma scenica, a Lubiana. Ora quello spettacolo è approdato a Bolzano e, francamente, meritava il viaggio. Primo: per l'intrinseco interesse della partitura. Secondo: per ascoltare e vedere dei complessi di alto professionismo e grande duttilità: l'orchestra, il coro e il corpo di ballo del Teatro Nazionale Sloveno potrebbero dar lezione alla maggior parte delle analoghe compagini italiane e, in particolare, nel coro è apparso eccellente il settore dei tenori. Infine, per gustare l'abilità con cui è stato confezionata la messinscena di un'opera che pone non pochi problemi di macchinosità e inverosimiglianza.

Forse a disagio nel passare dall'anarchia delle operette alla struttura fortemente organizzata del grand-opéra, l'Offenbach drammaturgo è qui inferiore all’Offenbach musicista e Die Rheinnixen appare gravata, al contempo, da ellissi e pletoricità. Certi trapassi sono troppo repentini e, ad esempio, il baritono si trasforma da feroce uomo d'arme a padre amorosissimo senza che siano stati gettati i semi per giustificare un simile cambiamento. Il regista Manfred Schweigkofler ha risolto il problema puntando sulla stilizzazione dei caratteri piuttosto che sullo scavo delle psicologie, sorvolando sulla componente più datata dell'opera – l'aspetto patriottico – e sottolineando invece quella, ben più moderna, del messaggio pacifista. In questa prospettiva, la perdita di memoria che il protagonista subisce a seguito d'una ferita di guerra assume un valore dolorosamente metaforico; e pure l'andamento caricaturale impresso alle truppe militari appare tutt'altro che gratuito, anche perché quando sono in scena i feroci lanzichenecchi la musica di Offenbach non sembra aliena da un retrogusto comico. Quanto all'apparato spettacolare del terzo atto (quando, cioè, ci trasferiamo nel mondo degli elfi e delle fate), viene risolto con pochi tocchi minimalisti ma sapientemente evocativi: un'autentica lezione di teatro a basso costo. Meno felice l'idea di trasformare un personaggio minore (il mercenario che deve appiccare il fuoco) in una sorta di fool shakespeariano onnipresente, se non di vera e propria anima nera della vicenda: una trovata che nulla aggiunge all'impaginazione narrativa e, tuttavia, neppure la disturba.



Diretti da Marko Gaŝperŝiĉ, bacchetta indifferente alle rifiniture superflue ma sempre precisa nell'appiombo tra orchestra e palcoscenico, i cantanti hanno siglato prove nell'insieme soddisfacenti, anche se soprano e tenore devono portare il peso di due scritture davvero ardue. Alle prese con micidiali sbalzi di estensione, Urŝka Žižek non è riuscita a dominare fino in fondo il registro acuto; altrove però i suoi mezzi freschi ma non acerbi hanno saputo farsi valere, nelle frasi ampie e legate come in quelle a sfondo più virtuosistico, laddove Branko Robinšak ha dato l'impressione di un più generalizzato disagio. Senza affanni e ben caratterizzate le prove del baritono Jože Vidic, voce robusta e timbrata, e del basso Ŝaša Čano, che alla robustezza unisce una magnifica sofficità. A dominare il palcoscenico – e non solo perché spetta a lei il personaggio più incisivo dell'opera – è però il mezzosoprano Elena Dobravec: mater dolorosa e assetata di vendetta, che abbina una presenza scenica carismatica a una notevole personalità vocale.




Die Rheinnixen
Les Fées du Rhin


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