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Come fosse la prima volta

di Paolo Patrizi
 
Data di pubblicazione su web 12/10/2007  

Non sono stati molti, tra i grandissimi direttori, quelli che hanno scelto di cimentarsi in Traviata, e sono pochi quelli di cui ci resta, in quest’opera, un lascito discografico, in studio o dal vivo. Non c’è da stupirsene: nonostante la presenza dei due più famosi preludi composti da Verdi e il continuo ricorrere di ritmi ternari – un’inequivocabile richiesta, da parte del compositore, di far non solo “cantare”, ma anche “danzare” l’orchestra – il tessuto strumentale resta puntualmente relegato in secondo piano, perché, piaccia o no, una qualsiasi edizione di Traviata si sostanzierà, sempre, nella sua protagonista. La (relativa) delusione che promana dall’ascolto delle registrazioni con Toscanini, Karajan, Kleiber sta proprio in questo: l’inadeguatezza, per una ragione o per l’altra, del soprano prescelto e la presunzione del direttore di poter realizzare una Traviata memorabile solo in virtù del proprio indiscutibile talento.

Il debutto italiano in quest’opera da parte di Yuri Temirkanov – una bacchetta che non è azzardato inserire tra le dieci più grandi di oggi – poteva facilmente incappare in un rischio analogo: così non è stato, e non perché la protagonista (Svetla Vassileva, comunque d’alta professionalità) sia un soprano di caratura pari a tanto direttore. Il punto, piuttosto, è che Temirkanov, accostatosi finora solo di striscio a Verdi e al repertorio italiano, ha scelto di affrontare La traviata non con lo spirito del direttore sinfonico venuto a “colonizzare” un caposaldo della letteratura operistica, ma con quello del neofita, ancorché di lusso.


Ne è scaturita un’interpretazione originalissima, com’è proprio dei grandi musicisti quando affrontano una partitura con animo ancora vergine: una verginità che, per alchimia, si è estesa al pubblico. Anche nell’ascoltatore più smaliziato aleggiava l’impressione, se non di ascoltare Traviata per la prima volta, almeno di coglierne dettagli e sfumature sempre sfuggiti o, se colti, immediatamente rimossi: il “rubato” lieve ma ben percettibile del tema dei violoncelli nel preludio; la precisione ritmica del “crescendo” del coro Si ridesta in ciel l’aurora; l’inesausta varietà dinamica impressa a Di Provenza il mare, il suol, che qui davvero trasmette l’idea d’uno sciabordare di onde marine. Insomma una lettura formalmente incanalata su binari tradizionali (Temirkanov, tra l’altro, opera quasi tutti i tagli consueti, dalla cabaletta di Germont alla ripresa di Addio del passato), ma che apre molti nuovi orizzonti; è questo, d’altronde, ciò che si dovrebbe richiedere a un festival dedicato a Verdi, qual è quello di Parma.


Tuttavia nel mondo del teatro accade che si distrugga con la mano sinistra quanto è stato edificato con la destra, e al Festival Verdi si è verificato qualcosa del genere. La splendida interpretazione musicale, infatti, è stata retrocessa a mera colonna sonora da una messinscena molto intrusiva e distraente, chiamata a polarizzare nel bene e nel male – a conti fatti nel secondo più che nel primo – l’attenzione degli spettatori. I coniugi Karl-Ernst e Ursel Herrmann sono tra i padri fondatori del regietheater tedesco applicato al melodramma e la loro Traviata, mai approdata finora in Italia, è da anni un classico del genere, né lo è a torto: nel “bene” cui si accennava vanno citati l’ottimo lavoro sulla recitazione (a cominciare da quella del coro), certi momenti visivamente forti (Germont che, nell’ultimo atto, osserva impietrito il cuscino sporco di sangue della tisica Violetta) e alcune felici intuizioni, come l’idea di totale incomunicabilità tra i due amanti impressa nel duetto Parigi, o cara, dove la protagonista volge le spalle ad Alfredo – e viceversa. 
 
Purtroppo nella regia si fanno strada, fin dall’inizio, un carosello d’immagini e suoni che travolgono il libretto e la musica stessa: nelle scene delle feste non si contano le risate collettive, il rumore di bicchieri fracassati, le grida Rien ne va plus! che si sovrappongono al canto; mentre certe derive omosessuali e sadomasochiste (Gastone travestito da zingarella durante il relativo coro, Violetta che frusta uno degli invitati...) danno l’idea di strizzare l’occhio all’immaginario della moda e della pubblicità, più che di essere dettate da una concreta esigenza drammaturgica. Gastone d’altronde tornerà, non previsto dal libretto, anche nell’ultimo atto, al capezzale della protagonista moribonda, questa volta vestito da giapponesina (è carnevale...), a sancire il legame tra la prostituta Violetta e questa sorta di drag queen in cui gli Herrmann trasformano l’insipido visconte di Letorières. Infine, non mancano gaffe sotto il profilo della dialettica musica-immagini: Verdi introduce Germont con un tema orchestrale cupo e pesante che dovrebbe rappresentare il biglietto da visita, anche psicologico, del personaggio; farlo aggirare di nascosto sin dall’inizio del secondo atto, intento a spiare Alfredo, vanifica quest’effetto di presentazione.


In palcoscenico spicca l’emissione sempre omogenea e il timbro autenticamente baritonale di Vladimir Stoyanov: un Germont scabro, senza quegli afflati patetici che “fanno tanto belcanto” ma deformano la natura del personaggio, eppure capace d’imprimere una straordinaria ricchezza d’accenti a Di Provenza (la seconda strofa, per una volta, non dà l’idea di essere una banale iterazione della prima). La voce della Vassileva non sempre è pari ai micidiali desiderata del ruolo e la cantante tenta di ovviarvi intubando il suono, alla ricerca di sonorità più scure e drammatiche di quelle del suo strumento naturale (un procedimento, stranamente, su cui sembra insistere soprattutto nel primo atto: l’unico, in punto di diritto, abbordabile anche dai soprani leggeri). Nell’insieme plasma una Violetta prudente (si astiene dal Mi bemolle al termine di Sempre libera degg’io, almeno nella recita di cui si dà conto) e forse non carismatica, ma ben cantata e ottimamente recitata, mentre l’Alfredo di Massimo Giordano appare irrimediabilmente compromesso dall’emissione troppo aperta – talvolta al di là dei confini del vero canto, nonostante la gradevolezza epidermica del suono – e dai fiati molto corti. Gli interpreti di fianco non offrono il destro a particolari considerazioni, ma si segnala la sgradevolezza vocale del Gastone di Gianluca Floris. È ingeneroso sottolineare le mende dei comprimari: non lo avremmo fatto, se la regia non avesse attribuito tanto rilievo a questo personaggio.





Festival Verdi La Traviata al Teatro Regio di Parma



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