Quando la Schaubühne di Berlino con lo scoccare degli anni Novanta fu affidata al suo nuovo corso, Peter Stein, che per un ventennio ininterrotto laveva portata ai suoi massimi trionfi rimodernando ma anche sapientemente scendendo a patti con la grande tradizione tedesca del teatro di regia, si dileguò gradualmente in una sorta di Olimpo, discendendovi quasi soltanto per rinnovare e suscitare presso il pubblico dei mortali quellebbrezza di cui sono capaci le grandi opere dellumanità e i loro geniali interpreti.
Dopo aver allestito nella sua versione integrale (ben ventidue ore di spettacolo, suddivise in due giornate) il Faust di Goethe, mirabilmente interpretato da Bruno Ganz, ora, a distanza di sette anni, è stata la volta della trilogia del Wallenstein di Friedrich Schiller. La nuova maratona, che dura circa una decina di ore, ha avuto come sede non uno storico teatro, bensì gli enormi spazi ricavati allinterno di una ex fabbrica di birra, dove un tempo si produceva la Berliner Kindl, orgoglio della capitale tedesca. Sopra un palcoscenico lungo quaranta metri e profondo cinque, in un susseguirsi di tableau vivent e studiatissimi costumi (circa duecentocinquanta) ispirati alla pittura di Van Dick e Velásquez, scorrono davanti agli occhi di milleduecento spettatori incantati le scene di questa grandiosa e oltremodo impegnativa opera in versi di Schiller. Ovvero il dramma che sullo sfondo della Guerra dei Trentanni ha elevato a paradigma di quella vicenda bellica tra le più ambigue e disordinate dEuropa la figura assai controversa del leggendario condottiero boemo Albrecht von Wallenstein, còlto nel momento della sua sofferta decisione, dal cui esito dipenderà la gloria definitiva, o il disonore.
Il realismo dellormai settantenne regista tedesco, tuttaltro che oleografico, prende a modello, come accennavamo, le raffigurazioni dei grandi artisti del Seicento fiammingo, soprattutto per quel che riguarda le vedute dinsieme. Così nellatto unico che apre la trilogia, laccampamento eponimo viene a consistere di tre logore tende militari, di un tavolo con le panche per le libagioni allaperto, di due soldati che sulla sinistra giocano ai dadi, e altrettanti due intenti sulla destra a mondare verdure davanti a un fuoco acceso sotto una pentola fumante; il tutto interrotto qui e là dal rincorrersi sfrenato dei bambini sulla neve, da qualche danza improvvisata nonché dalle marcette di una banda militare chiamata ad animare la severa e aggrovigliata vita delle legioni. E qui che si palesano, insieme alla dichiarata fedeltà dei sudditi, anche le prime voci e i sospetti vòlti ad oscurare loperato, non sempre limpido nel suo significato, del generalissimo inviso allImpero, a cui egli pur deve la sua nomina, e allAustria cattolica tutta.
Il cambio di scena, con la seconda parte intitolata I Piccolomini, immette invece in uno spazio freddo e sinistro, intersecato da pannelli longitudinali alti e squadrati, che stanno per le pareti del palazzo, il vero e proprio quartier generale dellarmata, nel quale si tessono i complotti tra Ottavio Piccolomini, Terzky e Buttler, un tempo fedelissimi, ora disposti allinganno pur di avere dalla loro parte i generali e gli ufficiali messi al corrente dei proditori piani di Wallenstein. La firma della copia del documento, apparentemente a favore del valoroso duca e rispettoso di quei piani, di fatto privo di una importante clausola appositamente omessa, ha luogo in un salone raffigurato con il bancone del cantiniere al centro del proscenio, le tavole imbandite dei convitati disposti in prospettiva allungata, le vòlte, i chiaroscuri e il luccichio emanato dalle coppe e dalle stoviglie come in una grande tela inneggiante al gusto opulento del secolo. E a partire da questo momento che il destino dellosannato condottiero, un tempo alla guida di sessantamila uomini, oggi giunto a trattare con gli Svedesi nemici dellImpero, per non dover rinunciare allautonomia e alla libertà – ma anche alla sua inestinguibile sete di potere – comincia visibilmente a offuscarsi, nonostante i responsi astronomici da lui, cultore dei segni celesti, ritenuti ancora favorevoli.
Addentrandosi nella terza e ultima parte, la più ampia e psicologicamente sfaccettata – il titolo La morte di Wallenstein prelude già allinevitabile tragedia – appare sempre più imperscrutabile e ostinata la missione delluomo; e solo a tratti si intuiscono le ragioni di questo suo crogiolarsi nellillusione che una forza inconscia, eterna e indistruttibile, sia chiamata a sostenere fino alla fine il proprio destino di geniale stratega. E intanto si assiste allidillio, nato sotto un pessimo cielo, tra il colonnello Max Piccolomini, e la principessa Thekla, unica figlia di Wallenstein. Incredulo verso le prove del tradimento esibitegli dal proprio padre, il giovane Piccolomini dovrà scegliere se stare dalla parte dellamato e ammirato maestro di arti belliche, o se prestare fedeltà alle milizie imperiali, che ingiungono di disarmare Wallenstein e il suo seguito. Incalzato dalletica militare che impone la sottomissione al sovrano, sebbene a malincuore opterà per questultima soluzione, cadendo sul campo di battaglia; e a causa sua perirà di propria mano anche la sventurata Thekla. Tutto ciò mentre il cerchio si stringe attorno a Wallenstein, blindato nel suo castello ma ignaro di avere accanto a sé, nel fido Buttler, la mano assassina che metterà fine a quella sua ostinata quanto paradossale ricerca di una giusta (anche se ormai non più nobile) via.
Tralasciando ogni giudizio sullo stile della messinscena – che non si discosta granché dalle prove, tutte pregevoli, fornite da Peter Stein in quarantanni di attività teatrale, e che oggi contrasta apertamente con quello ostentato dalle ultime generazioni di registi, i quali, a detta dello stesso Stein, spesso pretendono di sostituirsi agli autori e ai testi, stravolgendone anziché studiarne, come fa lui, la portata di un linguaggio capace di parlare agli uomini di ogni epoca – conviene soffermarsi piuttosto sullestrema pulizia e rigore nella recitazione degli attori, tutti abilissimi nel ridare vigore alla poesia di Schiller, stupendamente diretti da un attento e appassionato regista-filologo come Stein. Tra essi spicca Klaus Maria Brandauer, non tanto per le sue doti istrioniche ben divulgate dal cinema, quanto piuttosto per la sua variegata capacità di porre in risalto quei tratti più intimi e meditabondi, quasi amletici, che ineriscono al personaggio di Wallenstein. Notevoli anche Peter Fitz, nel ruolo di un Ottavio Piccolomini astuto nel manovrare uomini e decisioni, fervidamente partecipe nonostante la sua mimica congelata, e Jürgen Holtz, che nel suo infido e fanatico Buttler fa trapelare le marcate ascendenze brechtiane.
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