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Ritorno a Kabul

di Emanuele Nespeca
  Buddha Collapsed Out of Shame
Data di pubblicazione su web 08/10/2007  
Chi ha visto Buddha collapsed out of shame in anteprima al Festival di San Sebastian, dove ha vinto il premio speciale della giuria, ha avuto la netta sensazione di assistere ad un racconto che si faceva poesia, grazie al semplice meccanismo della narrazione cinematografica. Hana, figlia del famoso Mohsen e sorella minore di Samira, nonostante la giovane età, conferma la nobile tradizione della famiglia Makhmalbaf, dipingendo col suo primo vero lungometraggio, a otto anni desiderava fare la pittrice, un’opera matura piena di vita, colori e significato. La regista impone prepotentemente la sua esigenza di scrittura visiva con un film che, assumendo a metafora l’infanzia e l’Afghanistan di oggi, apre una profonda riflessione sul futuro dell’umanità intera. E può sembrare paradossale il fatto che l’autrice iraniana, nata a Teheran, sia costretta, insieme a tutta la sua famiglia, ad esercitare la propria attività creativa al di fuori del proprio paese, eppure questa condizione coercitiva, unita all’incontro con l’ancor più paradossale situazione afgana, ha dato all’opera dei Makhmalbaf un respiro e una freschezza simili per certi versi solo al cinema neorealista italiano del dopoguerra. Riprese effettuate nei luoghi disagiati in cui si ambienta il racconto, troupe leggera, attori non professionisti, per lo più bambini, sono tutti elementi che costituiscono drammaturgicamente l’ossatura del film, rendendolo vero e allo stesso tempo poetico.

In Buddha collapsed out of shame la storia si ambienta nel Bamian, località montuosa ad est di Kabul, e più precisamente nel villaggio di caverne costituito intorno all’enorme nicchia che, ormai vuota, fino a qualche anno fa ospitava una gigantesca e antica statua del Buddha. Molti ricorderanno l’eco prodotto dalla notizia, che fece il giro del mondo, della distruzione compiuta da parte del governo Talebano di questo importante monumento archeologico, oltre che religioso. Ed è proprio l’esplosione di quell’enorme scultura in pietra, mostrata in apertura e in chiusura del film, attraverso filmati di repertorio, a sottolineare il tema portante del racconto: la crudele stupidità della violenza, di fronte alla quale persino una statua può vergognarsi e decidere autonomamente di cancellare la propria esistenza. Hana prende spunto da una delle riflessioni scritte dal padre in un libro, intitolato appunto Buddha was not demolished in Afghanistan, it collapsed out of shame, per elaborare, con la complicità della madre Marziyen Meshkini, qui sceneggiatrice, una storia originale ed a propria misura.



Bakthay, una bambina di 6 anni protagonista della pellicola, decide di andare a scuola, incitata dal coetaneo Abbas, vicino di casa (o meglio di caverna), per apprendere l’alfabeto e poter leggere un’infinità di storie divertenti. La piccola al fine di realizzare questo suo desiderio, apparentemente normale, decide indipendentemente dalla volontà della propria famiglia di comprarsi il quaderno ed il lapis, necessari per seguire le lezioni scolastiche, vendendo al mercato le uova della sua gallina. Inizia, così, un viaggio che, in quei paesaggi sterminati, appare quasi epico per Bakthay che la porta ad affrontare prima il mondo degli adulti, dove deve mercanteggiare la vendita dei suoi beni senza farsi sopraffare, poi quello dei giovani, dove malgrado la sua volontà è costretta a partecipare al "gioco della guerra". Se in fondo dai grandi riesce ad ottenere, muovendo pietà e invocando Dio, ciò che vuole – e pazienza se i soldi non bastano per comprare anche il lapis, sostituito con il rossetto della madre recuperato in casa, - la relazione paritaria che la bambina deve vivere con i propri coetanei s’instaura fin da subito sul principio della finzione che, per quanto apparente, risulta ancor più reale della realtà.

La bimba, infatti, si ritrova prigioniera di un commando di piccoli talebani che imbracciando minacciosi rami a modo di fucili, sotto il fuoco incrociato di un raid aereo costituito da un lancio vertiginoso di aeroplanini di carta, costruiti con le pagine del prezioso quaderno, decidono di volerla lapidare. E il gioco del potere e della violenza, come ne Il signore delle mosche di William Golding, diventa anche qui la necessaria espressione di bambini, ragazzi, lasciati soli a giocare ai piedi del vuoto, creatosi nella nicchia, dove prima si ergeva il Buddha, metafora di una mancanza culturale, sociale e politica ancora più profonda. In un paese, come quello afgano, dove al susseguirsi delle varie dominazioni impostesi con la forza, prima quella sovietica, poi quella musulmana, infine quella laico/cristiana occidentale, non è mai corrisposta una reale pace e ricostruzione social-culturale, sembra quasi terribilmente normale la violenza con la quale i bambini replicano, giocando, la guerra dei grandi, interpretando a turno la parte dei soldati sovietici, americani, talebani o di Al-Qaeeda.

La piccola Bakthay, al pari di un involontario eroe chapliniano, trotterella leggera tra mille disavventure e peripezie, fugge dal gruppo di ragazzi/sequestratori e quando infine riesce ad arrivare a scuola, ignara della normale prassi con cui vi si accede, viene naturalmente rigettata dal sistema scolastico non prima di aver scarabocchiato una lavagna piena di algoritmi, distratto un’intera classe di bambine e suonato ingenuamente la campanella di fine lezione. Sembra non esserci alcuna possibilità di riscatto per quest’infanzia perduta, a nulla vale il tentativo estremo della piccola protagonista di donare, attraverso il maquillage fatto con il rossetto della madre - strumento del peccato secondo i fondamenti dell’islam integralista -, a quei volti già adulti, segnati dalla violenza e dalla sofferenza, un attimo d’ironica, grottesca e drammatica ritrovata fanciullezza. E il ritorno verso casa della bimba, ricongiuntasi all’amico Abbas e catturati nuovamente dai bambini terroristi, diventa un’ulteriore epifania di come a volte nella vita è necessario "morire", anche se solo metaforicamente, per poter andare avanti e sfuggire al circolo vizioso dell’orrore a cui ormai sembriamo indissolubilmente legati.



Buddha Collapsed Out of Shame
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