Peccato che una serata come questa viva per sole due recite, senza neppure il conforto della testimonianza in DVD. Riproposta al Cantiere Internazionale dArte di Montepulciano ventisette anni dopo la ‘prima inglese, e a una ventina dalla sua unica apparizione italiana a Firenze, The Lighthouse di Peter Maxwell Davies è una di quelle partiture che rendono ottimisti sulla possibilità che il genere operistico possa creare ancora capolavori. Per di più la messinscena poliziana è apparsa duna perfezione stupefacente: insomma, uno spettacolo tra i più belli visti in Italia questanno, ma destinato a restare solo nella memoria dei pochi fortunati che potranno dire “Io cero”. Cè da augurarsi che qualche altro teatro se ne accorga.
Scrivendo anche il libretto, Maxwell Davies forse il maggior compositore inglese vivente sceglie la strada dun soggetto tanto claustrofobico (un kammerspiel dambiente marino) quanto ambiguo (un gioco delle parti in cui si può ipotizzare tutto e il contrario di tutto), dalla teatralità sotterranea ma, sulla distanza, dirompente. Basandosi su uninchiesta, rimasta irrisolta, degli albori del secolo scorso, questa “opera da camera in un atto con un prologo” racconta lo sbarco di tre ufficiali di marina in un faro il lighthouse del titolo delle isole Flannan, misteriosamente spento. Nessuna traccia dei tre guardiani, ma anche numerosi indizi della loro presenza fino a poco prima. Linchiesta si orientò per lipotesi duna disgrazia collettiva, come se le onde avessero trascinato in mare gli scomparsi, ma rimasero molti punti oscuri. Vivere isolati dal mondo può obnubilare la mente: e se in un raptus di follia collettiva i tre uomini si fossero massacrati a vicenda?
Congetturando intorno al nulla, o quasi, i tre ufficiali giungono a identificarsi con i tre scomparsi: un transfert dove zone dombra e abissi della psiche passano dagli uni gli altri. Maxwell Davies, senza soluzione di continuità, trasforma dunque gli azzimati ufficiali di marina nei tre brutali custodi del faro: disperati ex lege finiti al largo dei mari scozzesi per sfuggire a chissà quali condanne, o per espiare chissà quali colpe. Difficile dire se quel che vediamo in scena è un flashback sugli scomparsi o una proiezione dellinconscio degli altri. Difficile e, in fondo, inutile. Nessuno è innocente: e gli omicidi, le violenze, gli incesti evocati in un gioco al massacro che, forse, prelude a un altro tuffo mortale tra le onde potrebbero essere stati consumati da ciascuno di noi.
Su questo soggetto vagamente conradiano, dove sono inevitabili gli echi del Britten ‘marino di Peter Grimes e Billy Budd, Maxwell Davies ha scritto unopera asciutta nel taglio nonostante la duplicità del piano temporale e rarefatta nella timbrica dun organico cameristico che però, nel trattamento dei fiati, non esclude taglienti acidità alla Shostakovich (attenzione gli assoli del corno). Molti effetti sapientemente onomatopeici (il glissato del flauto per descrivere le grida dei gabbiani
) e una scrittura vocale polistilistica fino al virtuosismo (per il personaggio di Arthur, mistico e predicatorio, si ascoltano echi del corale) completano il quadro duna partitura che dovrebbe entrare di diritto nel grande repertorio.
In scena tre cantanti per sei personaggi: a seconda dello sciabordare dellinconscio, e con un semplice cambio di casacca, il tenore Sean Clayton, il baritono Paul Carey Jones e il basso Andrew Slater ora incarnano gli ufficiali di marina, ora danno vita ai turbamenti adolescenziali di Sandy, diviso tra il feticcio della sorella e vaghe pulsioni omosessuali, alla violenza disperata del più maturo Blazes, al bigottismo e alla superstizione di Arthur. Al primo spetta la vocalità più suadente, con momenti da autentico tenore di grazia, come la struggente canzone con accompagnamento di pianoforte; alle due voci gravi viene spesso richiesto un uso del falsetto con funzioni espressionistiche; tutti e tre si dimostrano cantanti-attori di altissima statura e maestri nel cesello della parola: artisti maiuscoli, insomma.
Leccellenza del risultato complessivo va però attribuita, ovviamente, al direttore: Paul MacAlindin, da tempo in sintonia con il mondo musicale di Maxwell Davies, ha saputo distillare con uguale precisione il nitore delle arcate melodiche e gli effetti timbrici chiamati a “sporcare” la tavolozza sonora della partitura. La Young Janácek Philharmonic Orchestra risponde con recettività ed entusiasmo e Andrew Steggall realizza, nei giochi di luce come nella recitazione dei cantanti, una di quelle regie che si plasmano sulla musica, anziché remarle contro. Per il resto la messinscena è semplicissima, ma di enorme capacità evocativa: una struttura elicoidale che, ruotando, rappresenta ora il faro, ora il suo interno. Si può fare ancora grande teatro con pochi mezzi, se cè molto talento. È questo in fondo il messaggio che, da quando Henze lo fondò nel 1976, trasmette il Cantiere di Montepulciano. Da allora un faro pardon: lighthouse per la musica contemporanea.
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