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Progettando la pazzia

di Paolo Patrizi
 
Data di pubblicazione su web 07/09/2007  

Se Stendhal parlava, a proposito dell’Italiana in Algeri, di “follia completa e organizzata”, in quest’operina del 1830 – di quasi vent’anni successiva al capolavoro rossiniano – Donizetti si spinse più in là: una follia rigorosamente simulata, da parte di quasi tutti i personaggi, che con il senno di poi sembra quasi un controcanto alle pazzie lancinanti (e tutt’altro che “per progetto”) di tante sue eroine tragiche, da Anna Bolena a Lucia di Lammermoor.

Per il resto inutile imbarcarsi in paragoni: in attesa di capolavori ormai alle porte – la Bolena è dello stesso anno, l’Elisir di due anni dopo – I pazzi per progetto rappresentano, per il suo autore, un semplice siparietto, oltre tutto composto in un momento particolarmente drammatico della sua vita (la morte del primogenito). Il nonsense come forma d’arte, istituzionalizzato proprio grazie all’Italiana in Algeri, lascia il passo a una farsa senza particolari strategie drammaturgiche, ma gradevolissima nell’intreccio a qui pro quo e nell’impianto parodistico che lo sottende: non manca neppure – nel momento di massimo panico tra i finti pazzi – la citazione di un topos del melodramma tragico di quegli anni come il concertato Qual mesto gemito della Semiramide.
 

L’altra curiosità è, per così dire, di semiologia vocale. Donizetti, infatti, qui rinuncia al tenore: un anticonformismo coraggioso, ma che all’opera costò caro (“i fischi giunsero alle stelle”, scriverà l’autore in occasione di alcune recite romane). Tutti e cinque i personaggi maschili sono bassi o baritoni, compreso l’amoroso della situazione: anche il bel Blinval, passionale colonnello dei dragoni, porta con sé una buona dose di ridicolo.

Appare evidente, a questo punto, come la sopravvivenza dei Pazzi per progetto (fu proprio il Festival Opera Barga a riesumarli, trent’anni fa) sia legata a due fattori: da una parte un gruppo di cantanti così ricchi d’inflessioni e colori da evitare la monocromia d’un plateau canoro tutto basso-baritonale; dall’altra una messinscena capace di raccogliere le innumerevoli sollecitazioni buffonesche del testo, senza pudori, anzi magari con il coraggio d’ampliarle. Soprattutto sotto quest’ultimo aspetto l’attuale riproposta di Barga aveva le carte in regola. 


Michal Znaniecki prende il libretto di Domenico Gilardoni per quello che è: un canovaccio dove innestare trovate a ripetizione (già entrando in sala il pubblico trova, a sipario alzato, un paio di personaggi intenti in gag demenziali. La claustrofobica ambientazione del manicomio viene trasformata in un bagno termale (anche le vasche, slittanti da un lato all’altro del palcoscenico, sembrano in preda a frenesia psicomotoria), e la cosa conferisce un tocco arioso che aiuta lo spirito della farsa. Inoltre, l’inesausto balletto di controscene escogitato dal regista polacco consente gustosi primi piani anche ai personaggi in ombra: il grande quartetto posto al centro dell’opera si trasforma così, sul piano visivo, in un sestetto; e senza alcun disturbo, poiché ogni movimento appare sapientemente calibrato sulla musica.
 

L’orchestra J Futura di Trento (un nome giovanilistico per un ensemble tutto composto da giovani) fa bella figura sotto una bacchetta di lungo corso come Marcello Panni, mentre i cantanti si danno da fare, pur non scongiurando il rischio di vaga monotonia di cui si diceva. Spiccano comunque la voce voluminosa e ben proiettata di Alessio Potestio (il direttore del manicomio) e quella un po’ affaticata, ma di robusta timbratura, di Massimiliano Fichera (il trombettiere disertore trasformato in medico ciarlatano, esplicita anticipazione di Dulcamara). Meno gradevole – non solo per i mezzi, ma anche per una certa affettazione interpretativa – il Blinval di Maurizio Leoni. Nelle loro piccole parti si fanno onore Salvatore Grigoli e il veterano Maurizio Picconi, mentre il fronte femminile schiera la spiritosa Lucia Mastromarino e, soprattutto, da Elizaveta Martirosyan: un po’ puntuta e “tirata” in acuto nel suo ruolo ad alto tasso virtuosistico, ma scoppiettante quanto basta nella morale della favola “Donne mie, siamo serve ma regnamo, ma siam nate a comandar”.





I pazzi per progetto di Gaetano Donizetti



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