“La perversità è larte di trasformare il bene in male”. Con questa enigmatica frase di presentazione Claude Chabrol è tornato quest'anno alla Mostra di Venezia (tre anni dopo La damigella donore) avvicinandosi sornione al protagonista del suo ultimo film, L'innocenza del peccato, un famoso scrittore di mezzetà (François Berléand), che ama vivere di citazioni. Quelle sue e quelle altrui. Rintanato in una splendida dimora immersa nella campagna vicino Lione, egli vive con la moglie, unamica-amante sempre presente, circondato da un gruppo di amici professionisti ricchi e annoiati, dediti a perverse pratiche erotiche. Un giorno incontra in uno studio televisivo la bella conduttrice del meteo (Ludivine Sagnier), lei perde la testa per lui e iniziano una relazione allinsegna dellamore clandestino, mentre un giovane milionario psicolabile (Benoît Magimel) tenta di strappare vanamente la ragazza dalle braccia dellanziano scrittore. Seguirà la fine della relazione, non prima di aver iniziato la ragazza alle sessualità libertina, il matrimonio dei due giovani, con lei che resta però ossessionata dal ricordo delluomo, fino a spingere il novello sposo allinsensato, estremo gesto dellomicidio dello scrittore.
Benoît Magimel e Ludivine Sagnier
Fin qui L'innocenza del peccato resta un film sostanzialmente mediocre, privo di ritmo e di mordente, un triste appannaggio dei temi e dei motivi dellormai stanco maestro francese: la ricca borghesia cittadina, le sue storie sentimentali, le sue perversità posticce da vecchi rimbambiti, lartificiosità delle situazioni, leccessiva e semplicistica caratterizzazione dei personaggi, sempre più improbabili, rendono il film così uguale a tanti altri “del genere” (un cancro che attanaglia da parecchi anni gran parte del cinema dautore francese, soprattutto quello della vecchia guardia), da sembrare “inutile”, nel senso che riesce a svilire completamente anche quello che di buono potrebbe esserci, come appunto la faccenda del libertinismo.
Ridotto a semplice pratica erotica da retrobottega, buono al massimo a insegnare alla giovane ragazza la pratica della migliore fellatio, privo delle adeguate fonti letterarie che ne sostengano, nellinsieme narrativo del film, una giustificazione convincente, il libertinismo, pratica di libertà rivoluzionaria così cara alla cultura francese, perde infatti tutto il mordente possibile: in un film che avrebbe voluto reggersi sulla difficoltà di coniugare queste pratiche erotiche con il consolidarsi di un legame sentimentale tra un uomo di mezzetà e una ragazzina, tutto alla fine scivola sul bozzetto macchiettistico, in un tono da vaudeville per vecchi annoiati.
E solo negli ultimi venti minuti del film che esce fuori il miglior Chabrol, quello più riconoscibile e a noi più caro, quello più hitchcockiano, per intenderci, con la vicenda della ragazza costretta a deporre in favore del marito, ma poi raggirata dallastuta suocera, che le toglie in seguito qualsiasi diritto sulleredità, e sul finale assolutamente inaspettato che, anche se un po retrò, chiude il cerchio sulla vicenda in maniera surreale. Peccato che tutto ciò avvenga alla fine e appaia come semplice scampolo di una creatività, quella di Chabrol, forse irrimediabilmente perduta. Non è un peccato certo, anche se letà non è una giustificazione, ma di fronte al costante sperimentalismo di un Godard o di un Rivette, ma soprattutto di fronte alla straordinaria freschezza del Rohmer de Gli amori di Astrea e Celadon, tra quelli che una volta erano i “giovani turchi”, Chabrol, insieme a Resnais, sembra ormai quello più attempato e legato a formule vecchie, ormai superate da molto tempo. Peccato, però, che si trovi in compagnia di una folta schiera di autori, anche molto più giovani di lui, che tutto potranno essere, tranne che il futuro del cinema francese. Sarebbe forse il caso di rispolverare il vecchio motto sessantottino “Épater les bourgeois”?
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