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Quando il lavoro rende schiavi

di Federico Ferrone
  In questo mondo libero
Data di pubblicazione su web 27/09/2007  

Dopo la Palma d’oro a Cannes di Il vento che accarezza l'erba, Ken Loach e il suo storico sceneggiatore Paul Laverty tornano alla Gran Bretagna contemporanea, con un’opera che racconta il lavoro nero, la precarietà e lo sfruttamento della manodopera proveniente dall’Europa dell’est.

Vera e propria “coppia” cinematografica, Loach e Laverty hanno quasi sempre creato opere dallo straordinario valore di denuncia politica, ma anche personaggi di grande statura tragica che incarnassero il disagio di fronte alle ingiustizie raccontate.

Così avviene in In questo mondo libero, incentrato sulla vicenda di Angie (Kierston Wareing), 33enne britannica che, dopo essere stata licenziata da una società specializzata nell'assunzione di lavoratori stagionali, decide di aprire la propria agenzia di  lavoro interinale insieme alla coinquilina Rose (Juliet Ellis). Più che nell'offrire un impiego part time il loro lavoro consiste nel reclutare masse di disoccupati di ogni nazionalità alla periferia di Londra per poi smistarle verso lavori perlopiù manuali, di breve durata (spesso anche solo un giorno), dando loro un salario da fame.


Jiuliet Ellis e Kierston Wareing
Jiuliet Ellis e Kierston Wareing in posa per i fotografi a Venezia



Loach e il suo collaboratore sono bravi a mostrare la crudeltà del grande meccanismo del lavoro interinale e stagionale, un processo che parte dalle grandi imprese e arriva alle masse disoccupate dei paesi emergenti. Passando per agenzie di reclutamento che spesso si spostano anche in Polonia o Ucraina per convincere i lavoratori, dietro compenso, ad andare a vivere nel Regno Unito. Una sorta di moderna schiavitù o meglio di “catena alimentare” dove il più forte (le grandi ditte) cannibalizza sempre il più debole (i lavoratori immigrati) senza rischiare nulla.

Il film va dunque alle radici profonde del benessere britannico recente, denunciandone l’origine “sporca” e lo sfruttamento di lavoratori i cui diritti, nel caso dei paesi appena entrati nell’UE, sono stati equiparati in teoria ma continuano a essere ben diversi nella realtà.

Forse stavolta la vicenda costruita da Loach, oltre a non essere proprio originale (ma non è mai stata la sua caratteristica), risulta anche poco credibile, specie quando mette in scena il commando di lavoratori sfruttati che rapisce il figlio di Angie per reclamare gli stipendi non pagati. Ma se il rimprovero che abitualmente viene mosso alla cinematografia del duo Laverty- Loach è quello di un certo manicheismo nel dipingere sfruttati e oppressori, ci si poteva aspettare una risoluzione scontata, come avveniva in Ladybird, Ladybird oppure in Paul, Mick e gli altri,  dove la conclusione suggellava tragicamente le ingiustizie sociali esposte in tutto il film.

C’è invece una sorta di irrisolvibile ambiguità nel personaggio centrale di Angie, che fa si che nel film, per quanto il dramma sociale sia denunciato con chiarezza, il giudizio morale sulle persone sia in parte sospeso, come se in questo sistema perverso fossero di più le vittime che non i colpevoli. Come se la precarietà (mascherata da “flessibilità”) fosse una scelta imposta dall’alto e poi accolta come inevitabile e addirittura benefica da parte delle nuove generazioni, come dimostra il dialogo tra Angie e il padre, fautore del vecchio modello economico e spaventato dall’arrivo dei lavoratori extracomunitari.

E’ quindi interessante vedere come il film non passi, se non occasionalmente (come nel caso del personaggio di Karol), dallo sguardo dei lavoratori stranieri, ma sia quasi sempre filtrato da quello di Angie, un personaggio combattuto e ambiguo.  Da una parte incarna il male, visto che si arricchisce sfruttando i poveri cristi venuti a Londra per sfuggire a disoccupazione o persecuzioni politiche. Ma dall’altro è una vittima di questo stesso sistema: sola, licenziata infinite volte, costantemente “minacciata” dai servizi sociali che vogliono toglierle l’affidamento del figlio, per Angie l’agenzia di lavoro è l’unica chance di uscire dall’ombra e vivere confortevolmente.

Nella splendida scena finale osserviamo Angie in Ucraina, ormai abbandonata dalla socia Rosie, intenta a reclutare lavoratori stranieri in partenza per il Regno Unito. Quando una signora le dice che per partire deve abbandonare i suoi due figli e le porge il denaro richiesto, Angie prima sorride teneramente alla donna poi, meccanicamente, accetta i soldi.

Come diceva il giallista francese Léo Malet: “L’uomo è così. Non del tutto buono, non del tutto cattivo”. Il problema, allora, è tutto politico.







In questo mondo libero
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Ken Loach
Ken Loach




 
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