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Gli scemi del villaggio

di Roberto Fedi
 
Data di pubblicazione su web 23/06/2007  

La cosa, di per sé, è già una farsa. Ci riferiamo agli esami di stato (o maturità), che anche quest’anno sono lì a ricordarci che questo è un paese senza speranza. Ma non vogliamo tanto insistere su questa barzelletta nazionale. Ci piace invece (direbbe un Professore con la P maiuscola all’esame) segnalarvi una chicca divertente, perché appunto riguarda la televisione. Della cui esistenza il Ministro dell’Istruzione deve essersi accorto, un giorno, segnalando la cosa alla commissione o a chi, nell’austero segreto delle sale ministeriali, decide i cosiddetti temi (pardon: tracce) che alcune centinaia di migliaia di studenti accaldati dovranno svolgere spremendo per ore 6 (ci pare) tutto il loro cervellino, o cervellone, o come volete voi, per tirarne fuori almeno una volta nella vita il meglio.

Si sa già che il tema (pardon: traccia) su Dante conteneva un errore così marchiano che una volta sarebbe bastato a farvi buttar fuori da un esamuccio anche casalingo. Ma il più curioso, perché  trombonescamente serio, pieno di sussiego, apparentemente up-to-date era il tema (pardon: traccia) sul “villaggio globale”. Beh, ragazzi, qui non si scherza: siamo o non siamo al passo coi tempi?


Il candidato doveva commentare questo brano, appunto a proposito del “villaggio globale”. Eccolo qua: “L’industrializzazione ha distrutto il villaggio, e l’uomo, che viveva in comunità, è diventato folla solitaria nelle megalopoli. La televisione ha ricostruito il ‘villaggio globale’, ma non c’è il dialogo corale al quale tutti partecipavano nel borgo attorno al castello o alla pieve”. Fine.

Ora, se a noi avessero sottoposto questa mezza baggianata senza altra indicazione, avremmo pensato a uno scherzo da primo d’aprile. Invece no. E chi è che ha scritto questo bel pensierino? Celentano?

No: è Giuseppe Tamburrano. E chi era (meglio: è) costui? Uno studioso di comunicazioni di massa? Ovviamente no (e si capisce). Un semiologo? No davvero (vedi sopra). È uno storico. Della società d’oggi? No, dei partiti politici, segnatamente del Partito socialista, di Gramsci e di Nenni. Che ha scritto questo temino nel 1983, in un saggetto giustamente dimenticato. Cioè in un’altra era, diciamolo pure. E chissà come gli è scappata questa bella pensata, anche.

Questo bel pensierino, dicevamo, presenta una scena idilliaca. Uomini e donne lieti, a chiàcchiera (anzi: a fare un “dialogo corale”, che non è male come contraddizione in termini) a sera nel natio borgo selvaggio, tutti belli come nelle pubblicità del Mulino bianco: e lì vicino ora un castello, ora una pieve, e magari uno scampanìo festoso (c’è una pieve, che diamine), e la famigliuola attorno al desco frugale ma onesto. Tutti allegri e felici, tutti poveri ma belli. Poi è arrivata l’industrializzazione cattiva, e tutto si è tramutato nella “folla” (come diceva nell’Ottocento Valera), e la felicità è finita.

Lo sappiamo, sembra la versione più sgangherata del Signore degli anelli. Ma non bastava, ahimè. Perché poi, visto che i mali vengono sempre a coppia, zac!, ecco la maledetta televisione, e la fine dell’innocenza e del sabato del villaggio. Che ha ammutolito le persone. Che le ha rese schiave. Che le ha perdute. Scatola del demonio, mangiatrice di coscienze, inganno satanico.

Ora, se a noi avessero dato questo tema (pardon: traccia), avendo letto McLuhan e un po’ di studiosi seri dei mass media, avremmo svolto il tema (pardon: traccia), così.

Ignoranti che non siete altro. Ma andate tutti a quel paese: anzi, pardon, a quel borgo.






 
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