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Da Mozart alla black music

di Marco Luceri
  "Quattro minuti"
Data di pubblicazione su web 08/06/2007  

Si fa un gran parlare in questi mesi di rinascita del cinema tedesco, di nuovo cinema in Germania, addirittura di una Nouvelle vague vera e propria (nata con l’affacciarsi di tanti giovani e promettenti autori e delle loro pregevoli opere), il cui film-simbolo è per adesso sicuramente Le vite degli altri (grande successo di critica e pubblico, Oscar per il Miglior Film Straniero 2007). Sono forse un po’ troppo prematuri i tempi per decretare se questo fenomeno sia effettivamente la nascita di una nuova generazione di autori e di un nuovo modo di fare cinema (perché è di questo che in realtà dovrebbe trattarsi) o se l’uscita di tanti interessanti film sia solo una serie di più o meno fortuite coincidenze. Certo il confronto tra due film come Le vite degli altri e Quattro minuti di Chris Kraus forse non regge poi così tanto: di là ad un’acuta riflessione storica si accompagna un meccanismo drammaturgico perfetto e coinvolgente, di qua un film apprezzabile, ma tutto sommato non eccelso, che ci porta anzi un po’ indietro rispetto alla freschezza del film di Donnersmark.


La narrazione intreccia principalmente le storie di due personaggi apparentemente diversissimi tra loro. L'ottantenne Traude Krüger (Monica Bleibtreu) da sessant'anni insegna a suonare il pianoforte alle detenute del carcere femminile di Luckau. Un giorno finalmente arriva il nuovo pianoforte da concerto che lei e l'agente Mütze (Sven Pippig) hanno comprato raggranellando i loro risparmi. Tuttavia, una serie di avvenimenti sfortunati provoca disordini all'interno dell'istituto di pena tanto che il direttore Meyerbeer minaccia Traude di ritirarle la sua licenza di insegnante anche perché ormai ha pochissime allieve. Tra le detenute però Traude Krüger scopre le capacità di Jenny von Loeben (Hannah Hertzsprung), una ragazza dall’oscuro e tragico passato che, prima dell'adolescenza, è stata una giovanissima pianista di grandi speranze. Nonostante il temperamento aggressivo di Jenny, l'insegnante ottiene il permesso di istruirla per farla partecipare al concorso per giovani talenti "Gioventù musicale", un'occasione per rafforzare la reputazione pubblica del carcere e, soprattutto, di migliorare l'immagine del direttore Meyerbeer.

Dietro quest’intreccio abbastanza semplice sembra celarsi un vecchio vizio di fondo del cinema e più in generale della produzione culturale tedesca, la difficoltà cioè a liberarsi da certi cascami da estetica romantica per cui l’artista (in questo caso la giovane pianista Jenny) deve essere sempre rappresentato come il "genio solitario e incompreso", per cui il film ripropone il vecchio topos della tragicità dell’esistenza che viene riscattata dall’arte ("Non mi interessa lei come persona, ma come musicista" ripete più volte l’arcigna Traude all’allieva Jenny), pura emanazione dell’assoluta libertà dell’io-genio, fuori da ogni regola e sempre a disagio in qualsiasi posto. Da questo punto di vista dunque Quattro minuti non ha veramente nulla di nuovo, né di travolgente.


Il film però ha delle pregevoli caratteristiche proprio quando lascia ai margini questa traccia narrativa per ricostruire il rapporto, di reciproco disvelamento, delle due protagoniste. Quando cioè il meccanismo dell’isolamento scenico delle due (il carcere come tragica metafora dell’oscurità del potere) contribuisce ad avvicinare lentamente i due personaggi prima da un punto di vista morale, poi da un punto di vista umano. In sostanza ciò che Kraus fa, aiutato in questo dalla straordinaria prova delle due attrici (la misurata e intensissima Bleibtreu e la Hertzsprung che riesce a concentrare nella sua fisicità dirompente l’eccessività del suo registro recitativo), e quello di smontare pian piano la distanza tra le due, riconsegnadoci una sorta di unicum (la scena del ballo è in questo senso molto significativa), la figura cioè di una donna sola. La sapiente costruzione di questo sottilissimo gioco psicologico dapprima alimenta la complicità tra le due, fino alla riuscitissima scena delle fuga (Hannah che scompare improvvisamente dietro il pianoforte portato via è davvero un gran bel pezzo di cinema), si trasforma poi nel finale ad effetto in una pura reciproca immedesimazione.


Se ciò in gran parte riesce lo si deve alla sapiente mano registica di Kraus che, grazie ad un uso e costante e intelligente del flashback, evita la ridondanza e la spiegazione esaustiva, per cui lo spettatore è sempre portato a farsi delle domande, a cercare di costruire la vera identità delle due (soprattutto quella di Traude) attraverso le mille tracce prima esibite e poi nascoste dal meccanismo drammaturgico, che taglia fuori inoltre, degradandole, le figure maschili del film (l’agente Mütze che impara a memoria i versi delle arie d’opera non scoprirà mai la vera essenza universale della musica, cioè la libertà). Del resto è proprio il passaggio finale da Schumann alla black music che sancisce, grazie alla performance scenica di Jenny (che unisce musica, danza e teatro), come per incanto, il momento di un incontro fino ad allora impossibile. Alla fine non resta, appunto, che inchinarsi, liberamente stavolta, e raccogliere gli applausi. Per la prima volta.


INTERVENTO DEL DIRETTORE SIRO FERRONE:

La recensione di Marco Luceri dice l’essenziale e lo dice molto bene. Desidero aggiungere una notazione di carattere drammaturgico. Mi riferisco alla "bulimia" di quella sceneggiatura (per fortuna riscattata dalla qualità degli attori, della fotografia e del montaggio). C’è troppo e di tutto in quella storia aggrovigliata, di ogni atteggiamento dei personaggi si dà, prima o poi, nel corso della sceneggiatura, una spiegazione che risale a traumi, antecedenti, memorie, che soffocano l’attenzione che si potrebbe dedicare alla storia che vive al presente. Invece di seguire l’essenziale del dramma (già di per sé ricco di sfumature, come scrive Luceri) se ne cercano gli antecedenti come in un trattato di socio-psicologia della vita quotidiana. Traumi del padre, traumi della figlia, traumi omosessuali, traumi domestici: tutto deve essere germanicamente (cfr. Adorno & c.) spiegato e giustificato, come se fossimo ancora al primo atto di un dramma di Ibsen o Pirandello. In ogni caso, la psicosociologia, anche quando è intelligente, ottunde l’emozione e la raffredda. La straordinaria scena finale dice da sola quello che il film avrebbe potuto essere se il regista lo avesse sottoposto a un trattamento di dimagrimento ideologico. Narrare, mostrare, non spiegare o dimostrare con i files dell’archivio personale di ognuno squadernati come note a piè di pagina di un saggio analitico.





Quattro minuti
cast cast & credits
 






 
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