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Roma ore 11

di Roberta d'Errico
 
Data di pubblicazione su web 21/05/2007  

Lo spettacolo è tratto dall'omonimo testo di Elio Petri, punto d'arrivo dell'indagine condotta dall'allora giovanissimo giornalista e futuro regista, su suggestione di Cesare Zavattini, per quello che poi sarebbe stato il film di Giuseppe De Santis maggiormente osteggiato dall'autorità politica, Roma ore 11. La genesi fu un fatto di cronaca avvenuto a Roma la mattina del 15 gennaio del 1951: il crollo di una scala in una palazzina di via Savoia 31. Furono piuttosto le circostanze ad attrarre l'attenzione di De Santis: il fatto che in quella via, a quell'ora e su quella scala, si trovavano più di duecento giovani donne accorse per un annuncio di lavoro che così recitava: Signorina giovane intelligente volenterosissima attiva conoscenza dattilografia miti pretese per primo impiego cercasi. Più che un'indagine sul fatto in sé Petri realizzò un affresco della vita delle ragazze italiane negli anni cinquanta e della Roma di allora arrivando ad analizzare ciò che, secondo De Santis, aveva posto in relazione tante vite diverse: il bisogno. Bisogno morale, materiale, psicologico. Non quindi solo una denuncia della condizione della donna nel lavoro, ma una scoperta e una più generale presa di coscienza della sua condizione sociale e psicologica.

Lo spettacolo per le quattro interpreti (Manuela Mandracchia, Alvia Reale, Sandra Toffolatti e Mariàngeles Torres) rappresenta il primo esperimento di un'unione nata dal desiderio di confrontarsi con una dimensione creativa e una sperimentazione tecnica più libera. Da qui la scelta di curare collettivamente anche la regia. Lo spettacolo però fin dai primissimi momenti non convince. Il sipario è gia aperto e svela che la scena sarà, per tutta la durata della rappresentazione, l’evocazione di un modesto terrazzo romano sintetizzato da alcune lenzuola bianche stese. Le attrici arrivano in platea, a luci ancora accese, vestite con abiti moderni e iniziano a leggere gli annunci di lavoro dei giorni nostri da un giornale spiegazzato che tengono tutte e quattro in mano e sottolineano l’assurdità dei requisiti richiesti. L’aver immerso il tono dello spettacolo in una dimensione attuale e vera, costringe le quattro registe a cominciare la rappresentazione con la proiezione di un cinegiornale dell’Istituto Luce che narra il fatto di via Savoia 31. Ecco svelata una delle funzioni di quei lenzuoli “purtroppo non poveri”: essere lo schermo di questo video. Il filo narrativo dello spettacolo è il risultato di un lavoro di selezione e montaggio del testo di partenza. Le attrici assumono di volta in volta il ruolo delle ragazze intervistate e del giornalista, cioè il giovane Elio Petri. La loro attenzione si focalizza principalmente sul resoconto delle singole ragazze e non sul contesto, tanto curato dalla penna di Petri. Quel contesto che rendeva le immagini di Roma nei film degli anni cinquanta affascinanti, suggestive e irraggiungibili non come le fredde riprese di notiziari dell’epoca che scandiscono lo spettacolo altre due volte.


Nel lavoro di adattamento e interpretazione del testo le attrici ripiegano spesso sulla caricatura dello stereotipo delle donne di allora strizzando l’occhio alle parodie televisive di oggi. Anche i momenti musicali in cui le attrici/registe rievocano canzoni dell’epoca come il “Cha cha cha della segretaria” sono perfette dal punto di vista esecutivo, ma non restituiscono, bensì falsano, il sapore di quegli anni. Più che soffermarsi su un abito, un oggetto, un colore, un suono e su tutto ciò che rende il testo di Petri poetico e vero le attrici strumentalizzano i momenti che maggiormente si prestano ad una facile riscrittura teatrale. Ed è in questo procedimento che emerge la discrepanza tra la loro attitudine attoriale e registica. Lo spettacolo appare ritagliato sulla sagoma della loro bravura che non è il “punto di arrivo” di un lavoro sul testo. Abbiamo piuttosto la percezione che l’opera di Petri sia stata concepita dalle interpreti  come un “punto di partenza” da abbandonare e dimenticare non appena sia stata varcata la soglia del palcoscenico.

A chiudere la rappresentazione la voce di una anziana signora, che è stata giovane in quella scala di via Savoia 31, che racconta l’ esperienza di quel giorno, della sua preoccupazione più per il cappotto rosso, appena comprato a rate, che per le ferite del corpo. Solo qui ritroviamo lontanamente il sapore delle interviste di Petri.

Per concludere, non ce la sentiamo di identificarci con le considerazioni con cui Paola Pegoraro Petri apriva l'edizione del 2004 del testo di Petri, con la convinzione che "gli attori di questo millennio non potrebbero mai restituire quella verità nell'opulenta società odierna". Ci piacerebbe piuttosto pensare che potremmo ancora assistere ad un autentico sforzo creativo, spirituale e umano e magari ad un po' di umiltà artistica.



Roma ore 11
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