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La riscoperta degli "affetti"

di Elisabetta Torselli
  Orfeo e Euridice
Data di pubblicazione su web 15/05/2007  

Una visione radiosa, come levigata da un profondo affetto, quasi di scultore che dà l’ultima e definitiva politura al suo bassorilievo: così ci è sembrato l’Orfeo e Euridice di Gluck nell’edizione in forma di concerto che Riccardo Muti ha consegnato al settantesimo Maggio Musicale Fiorentino, ritornando ancora una volta, e con l’accoglienza che Firenze gli tributa sempre in questi suoi ritorni, sul podio fiorentino su cui salì per la prima volta, a ventisette anni e ancora quasi sconosciuto, nel 1968. Nel decennio a seguire, uno degli episodi salienti è costituito proprio dalla celebre edizione del capolavoro gluckiano del 1976, con la regìa di Luca Ronconi e le scene di Pier Luigi Pizzi.

Da allora Gluck, o meglio la “galassia Gluck”, tutte le possibilità della visione classica-neoclassica, dalla sublime nobiltà dell’Ifigenia in Tauride all’arcata dell’opera seria di Mozart, dalle tensioni tragiche di Cherubini, che Muti ama al punto da avergli intitolato la sua orchestra giovanile, alla visione monumentale di Spontini,  è stata al centro della concezione stessa che Muti ha di un periodo così importante della musica, riverberandosi anche sulla sua lettura del repertorio sinfonico del classicismo viennese. Uno dei momenti di questa vicenda è stata l’Europa riconosciuta di Antonio Salieri con cui la Scala era stata inaugurata, e nuovamente inaugurata da Muti (ancora Ronconi e Pizzi per la messinscena) dopo gli importanti interventi di ristrutturazione della struttura teatrale e le aggiunte architettoniche di Carlo Botta. Ne riferimmo a suo tempo su “Drammaturgia”, senza indovinare che sarebbe stato l’ultimo episodio felice di un regno sul teatro milanese di Muti, conclusosi di lì a poco nel modo più traumatico.

 

Daniela Barcellona (Orfeo), Andrea Rost (Euridice), Julia Kleiter (Amore), Riccardo Muti
Daniela Barcellona (Orfeo), Andrea Rost (Euridice),
Julia Kleiter (Amore), Riccardo Muti



Per chi si ricordava l’Orfeo e Euridice di trent’anni fa, quest’esecuzione si è sovrapposta a quella, proponendo, ci è sembrato, un’intenzione diversa. Al taglio che ricordiamo scolpito e accentato di allora si è sostituita per Muti un’altra visione, più lirica, più affettuosa nel senso degli affetti di settecentesca memoria. La drammaticità del percorso e dell’espressione sembra non spengersi ma cambiare intenzione, qualche volta vibrare ad un livello meno eroico ma più profondo, nel palpitare straordinario degli accompagnamenti e degli accenti, qualche volta concentrarsi nella rifinitura accurata dei particolari e nella pianificazione dei volumi e degli spessori (ad esempio nella scelta di ottoni più vicini per taglio e tipologia alle sonorità del Settecento, o nella decisione di affidare in alcuni casi accompagnamenti ed echi di ritornelli ad un “concertino” alle spalle dell’orchestra), come se ogni momento fosse importante in sé, non necessariamente come parte di un’architettura drammatica, di un bassorilievo di cui comunque costituisce il particolare. In questa interpretazione quindi c’è la politura di cui si diceva, ma anche, per dir così, una collocazione diversa del capolavoro gluckiano nel giudizio di Muti: non più come primo capitolo della famosa “riforma” drammatica condotta assieme all’autore dei testi, il livornese Ranieri de’ Calzabigi, ma piuttosto guardando alla natura e all’intenzione originaria di “festa teatrale” dell’Orfeo e Euridice, arricchita dai panneggi musicali dei cori e delle danze, che in questa esecuzione fiorentina sono state tratteggiate e quasi levigate da Muti con un’attenzione particolare. 

Questo giudizio, questa collocazione, sono sostanzialmente giusti. Molte cose dell’Orfeo e Euridice che sembrano nuove rispetto alll’opera metastasiana dipendono invece da un’altra tradizione, quella della “festa teatrale”, da cui discendono molte soluzioni, dalla strumentazione curatissima, perché usata quasi come scenografia sonora (fra tanti esempi possibili, l’eterea atmosfera timbrica del recesso dei Beati) al numero ristretto dei personaggi solistici (solo tre), alla tendenza della materia a disporsi in grandi tableaux  incorniciati da ampi episodi corali e coreutici. Si trattava anche per Gluck e Calzabigi di conciliare una versione moderna di un mito tanto ricco di fonti e di glosse con l’obbligo del Lieto Fine, allora assolutamente non aggirabile, perché coerente con la visione del mondo del dispotismo illuminato asburgico.

Gluck e Calzabigi ci riuscirono egregiamente, inventando Amore, un ruolo congegnato in maniera tale che la vicenda sembra mossa da una potenza interiore, psichica, che ne accompagna tutto lo svolgimento, e dando a Euridice uno spessore umano che non troviamo né nelle antiche attestazioni del mito (Ovidio, Virgilio), né nelle passate trasposizioni operistiche, ma sempre stando su quel limite da cui la tragedia può rifluire verso il Lieto Fine, smussando le punte del tragico, riorganizzando il percorso degli affetti in guise più morbide e ambigue. Dell’aria-rondò Che farò senza Euridice fu detto autorevolmente (dal musicologo Alfred Einstein) che non esprimeva la sostanza drammatica della situazione, e che avrebbe funzionato altrettanto bene con le parole Che farò con Euridice. Ma in particolare dopo quest’esecuzione si potrebbe sostenere che al contrario è l’espressione perfetta della natura più vera del mito enigmatico di Orfeo.


Riccardo Muti
Riccardo Muti



A questa concezione sembrava guardare dunque questa più recente lettura fiorentina di Muti, senza nulla togliere alle impennate improvvise della temperatura drammatica, che restano comunque qualcosa che è nelle corde più profonde di questo direttore, e che qui si esprimevano soprattutto nell’accensione improvvisa di andamenti e di accenti che caratterizzava soprattutto i magnifici recitativi accompagnati che davano poi luogo alla chiusura apollinea dell’aria, come Che fiero momento di Euridice. Il valore direttoriale di Muti si è tradotto in quest’esecuzione fiorentina nella bellezza delle plastiche e levigate sonorità dell’orchestra e coro del Maggio e nella collaborazione con le tre cantanti.

Daniela Barcellona, Orfeo, ha indirizzato verso l’intimismo e l’affinamento dell’espressione le sue doti di belcantista rossiniana, le due altre interpreti, Andrea Rost, Euridice, Julia Kleiter, Amore, erano vocalmente meno rilevanti ma sempre perfettamente allineate alle intenzioni del podio. Muti non viene mai a Firenze senza sentire il bisogno di parlare al pubblico del Comunale. Questa volta l’occasione, mesta, è stata data dalla dedica del concerto a Rostropovic, morto pochi giorni prima: per Muti è stata l’occasione per tracciare un ritratto intenso del grande violoncellista e direttore, ricordandone i concerti fiorentini ma anche la dedizione in difesa e a sostegno degli artisti e intellettuali russi dissidenti e perseguitati. Successo calorosissimo secondo le previsioni.















Orfeo e Euridice
Azione teatrale in tre atti di Christoph Willibald Gluck, libretto di Ranieri de' Calzabigi (in forma di concerto)


cast cast & credits
 
trama trama

 

 

(in alto: Georg Frederick Watts (1817-1904), Orfeo e Euridice, collezione privata)

 



Libretto


Maggio Musicale Fiorentino

 

 

 

 


 




Christoph Willibald Gluck (Joseph Siffried Duplessis, 1775)
Christoph Willibald Gluck
(Joseph Siffred
Duplessis, 1775)
 

 

Foto: Archivio Teatro
del Maggio Musicale Fiorentino




 



 
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