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Il giardino dei ciliegi

di Roberta d'Errico
 
Data di pubblicazione su web 21/04/2007  

La compagnia "La fabbrica dell'attore" del teatro Vascello di Roma ha deciso di riprendere la messa in scena dell'opera ultima di Čechov, Il giardino dei ciliegi.

Il regista, nonché scenografo e costumista, Giancarlo Nanni, nella concezione dell'ambiente opta per soluzioni simboliche: pochi mobili e diversi oggetti sparsi per terra. L'elemento più caratterizzante e maggiormente significativo è costituito da lunghe strisce di tessuto, che pendono dall'alto, e sulle quali sono stilizzati i colori degli alberi di ciliegio che circondano la tenuta. Peccato però che lo stesso rosso si confonda e quindi si annulli in quello di una lunga striscia di tappeto che, per buona parte del primo tempo, attraversa e divide la stanza, e quindi il palcoscenico, e che forse vuole simboleggiare l'eccezionalità dell'arrivo di Liubòv Andriéievna Raniévskaia. Il regista non dà il tempo allo spettatore di godere dell'impianto scenografico, non concede qualche istante di silenzio, poiché appena si apre il sipario irrompono i personaggi: dapprima la cameriera e poi tutti gli altri. Nanni immagina che alle spalle della parete di fondo della scena, quindi senza che lo spettatore lo veda, si fermi un treno dal quale scendono i personaggi che entrano nella cosiddetta “stanza dei bambini” avvolti nel fumo. A disturbare l'originale soluzione è il fatto che il fischio del treno non proviene dal fondo del palcoscenico, ma dai punti di amplificazione del sonoro dello spettacolo posti 'pigramente' ai lati della sala.

All'inizio del primo tempo, così come scrive Čechov, la scena è occupata da quasi tutti i  personaggi della pièce che, attraverso i loro dialoghi, svelano i retroscena del tempo che hanno alle spalle. I nostri attori però, anche se bravi tecnicamente, attraversano la stanza avanti e indietro, senza esprimere la vera inquietudine che il testo suggerisce. Alla fine del primo atto, Liubòv (Manuela Kustermann) contemplando il suo giardino da una finestra, che si identifica con la quarta parete (quella dello spettatore), confessa il reale significato che questo ha per lei. Il giardino è bianco come l'infanzia, come la purezza, come tutto ciò da cui non ci si vorrebbe allontanare: "Ah, se potessi togliermi dal petto e dalle spalle questa pietra che mi schiaccia! Se potessi dimenticare il passato" afferma Liubòv. Questo è forse il momento più lirico dell'intera pièce, in cui la parola contiene in se stessa la visione. Dispiace quindi che l'attrice non riesca a renderlo vivo in noi non aiutata dal fatto che il regista le sovrappone immagini provenienti da due schermi retroilluminati che continuano inutilmente a sottolineare la figura del ciliegio. La loro posizione in sala inoltre non permette allo spettatore, se non a quello seduto in ultima fila, di guardare contemporaneamente l'interprete e le immagini.

Nell'impostazione scenografica del secondo atto, che si svolge in un luogo aperto, il regista decide di seguire una linea ancora più essenziale. Pochi elementi, una panchina e un piano d'appoggio. E' questo l'atto in cui emerge la visione storica del dramma di cui si fa portavoce il personaggio di Trofimov, l'eterno studente. Le sue parole piene di consapevolezza del degrado del presente, ma allo stesso tempo di speranza di cambiamento e rinnovamento non sono degnamente espresse dall'interprete (Sandro Palmieri) poiché il suo sguardo e la sua gestualità non assecondano il senso di ciò che proferisce. L'attore ripete per sé e non per il pubblico, o per il personaggio cui si sta rivolgendo, vale a dire Ania, le parole che, nelle intenzioni dell'autore, fanno da contraltare a quelle di Liubòv del primo tempo e che esprimono una visione capovolta del giardino dei ciliegi: "In ogni albero, del giardino dei ciliegi, da ogni foglia, da ogni tronco, la guardano crature umane. Non le ha mai viste? Non sente anche adesso le loro voci? Avete posseduto schiavi, e questo vi ha corrotti, voi e quelli che vivevano prima di voi".

 

Il secondo tempo della rappresentazione si apre con il terzo atto dell'opera, interamente dedicato al ballo che Liubòv ha organizzato proprio nel giorno in cui si decideranno le sorti della sua proprietà. La danza per lei è una fuga dalla realtà. Tutte le volte che si ferma affiora sempre più violentemente la consapevolezza che presto dovrà allontanarsi dalla sua casa, dal suo giardino di ciliegi. Senza di loro non capirà più la sua vita: lì sono vissuti sua madre, suo padre, suo nonno, lì è morto il suo bambino. La proprietà sarà acquistata dal mercante Lopachin che così manifesterà la sua brama di rivalsa, che non scaturisce dal desiderio di riscattare idealmente e moralmente la condizione di schiavitù in cui suo padre e suo zio avevano vissuto in quella medesima proprietà, ma da un'istinto selvaggio  e violento di distruzione e annientamento. Lopachin infatti "alzerà la scure sul giardino dei ciliegi", gli alberi cadranno e sorgeranno nuovi insediamenti e nuove abitazioni, simbolo, in negativo, di una nuova vita. Questa stessa avidità impedirà a Lopachin di trovare dentro di sé l'umanità semplice e autentica di una proposta di matrimonio a Varia. Anche in questo momento il regista, anziché concentrasi sulla chiave interpretativa dell'attore Giuseppe Antignati, si affida alle immagini sugli schermi su cui stavolta compaiono addirittura le gru.

 

Nel quarto atto, siamo di nuovo nella stanza dei bambini. Quando i personaggi stanno per partire sul fondo della scena una tela, alzandosi, svela una parete formata da oggetti vecchi e polverosi e da tutto ciò che potremmo trovare in un vecchio deposito abbandonato da tempo. Il regista vede così l'immagine di un  passato, storico e personale, che è stato violentemente e rigidamente accantonato. Quando tutti sono usciti ricompare in scena Firs, ostinatamente ancora presente. Non ha la forza di resistere ad un altro cambiamento. Il regista fa concludere l'azione con l'immagine del vecchio servitore che, seduto per terra, dà la carica ad un giocattolo quasi fosse tornato lui bambino, nella stanza dei bambini. 

Lo spettacolo ha buone intuizioni, che non si fissano sufficientemente nella totalità della rappresentazione. Da sottolineare due interpretazioni di contorno, quella di Tatiana Winteler, la governante Charlotta Ivànovna, e di Felice Leveratto, il vecchio cameriere Firs, impegnato in una recitazione senza parole.





Il giardino dei ciliegi
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