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Faust

di Roberta Carnevale
  Vladas Bagdonas
Data di pubblicazione su web 21/03/2007  

Eimuntas Nekrošius è sicuramente uno dei registi più originali e interessanti che si siano affacciati sulle scene internazionali negli ultimi anni. Il suo successo, consacrato dalle rappresentazioni di Amleto e Macbeth – messinscene indimenticabili per l’interpretazione fedele e allo stesso tempo profondamente nuova dei testi scespiriani – non poteva che generare grandi aspettative per il suo ultimo lavoro, il Faust di J. W. Goethe. Questa volta però, se non si può parlare di una vera e propria delusione, si dovrà riconoscere che lo spettacolo di Nekrošius, pur rimanendo di altissimo livello ed offrendo stimolanti spunti di riflessione, non sembra essere all’altezza delle aspettative, o comunque non all’altezza dei precedenti lavori.

Del Faust di Goethe, opera dalla complessa gestazione cui l’autore ha lavorato a fasi alterne durante tutto l’arco della sua vita, il regista lituano ha deciso di rappresentare solo Faust. Erster Teil, ovvero solo la prima parte del dramma, pubblicata per la prima volta nel 1808 e frutto della radicale rielaborazione di una versione ancora precedente, lo Urfaust (il Faust originario, capolavoro dello Sturm und Drang 'rinnegato' dallo stesso autore nel periodo del classicismo weimariano). Allo stesso tempo, tuttavia, Nekrošius ha tagliato il testo goethiano in modo da eliminare tutte quelle scene che interrompono il ritmo dell’azione (ad esempio la scena della Notte di Valpurga e il Sogno della Notte di Valpurga), e concentrarsi unicamente su quelli che erano i due nuclei principali dello Urfaust: il patto con Mefistofele e la storia di Gretchen. I primi due atti sono interamente dedicati alla rappresentazione minuziosa ed estenuata dell’angoscia di Faust, della sua incapacità di trovare appagamento e soddisfazione, della sua sete di conoscenza e di vita; la firma del patto con Mefistofele arriva solo alla fine del secondo atto, e la vicenda di Gretchen si consuma tutta all’interno del terzo.

Evidente è la sproporzione tra la parte dedicata alle riflessioni iniziali di Faust – parte che nell’opera di Goethe avrebbe un carattere meramente introduttivo e diventa invece preponderante nello spettacolo del regista lituano – e quella successiva al patto, che risulta estremamente contratta e si riduce all’episodio della seduzione di Gretchen. Il punto focale della messinscena è dunque l’inquietudine di Faust, e in particolare il suo desiderio non tanto di accrescere il proprio sapere quanto di riuscire a vivere con pienezza l’attimo. La rappresentazione iniziale di Dio – un uomo vestito di una specie di saio grigio che fa ruotare un lungo palo intorno ad un perno, quasi fosse un asino legato alla ruota di un mulino – e quella di Mefistofele, personaggio quasi inesistente che sembra essere l’ombra di Faust, mostrano chiaramente come la storia del Faust sia per Nekrošius una vicenda profondamente umana: le forze ultraterrene non sono che sbiaditi e impotenti residui di miti passati (Dio) o emanazioni dello stesso Faust (Mefistofele). Si tratta di una interpretazione decisamente legittima e fondata, che viene seguita con grande coerenza e rigore stilistico. Tuttavia è forse proprio l’eccessivo rigore a rappresentare il principale punto debole dello spettacolo.

Nekrošius ha alcune trovate sceniche sicuramente geniali e riesce a dare concretezza al ricco impianto figurativo del testo goethiano con idee originali e di forte impatto visivo. Talvolta sono piccoli particolari, versi isolati, a stimolare la fantasia del regista e a materializzarsi sulla scena con immagini fortemente suggestive: così i lampi rossi che Faust sente guizzare sulla sua testa diventano piattelli arancioni lanciati in alto verso il fondo del palco, mentre la lampada che inizia a vacillare quando Faust invoca lo Spirito della Terra è un lume appeso a due fili incrociati che sfarfalla sul capo dell’attore, a dare la sensazione non solo del vento che precede l’apparizione dello spirito, ma anche della claustrofobia del personaggio, che si sente letteralmente imprigionato, schiacciato dal soffitto del sua angusta camera. Immagini di grande effetto visivo e emotivo sono anche quelle che precedono la firma del patto, come quella dei libri aperti sul pavimento, abbaglianti sotto la luce bianca, e quel gioco di funi in con cui si chiude il secondo atto, capace di suscitare le associazioni più disparate, dal grafico di un elettrocardiogramma al gioco infantile del salto alla corda.

Ma se si eccettuano gli isolati momenti di climax, lo svolgimento del dramma risulta macchinoso, come ingabbiato da un rigorismo stilistico forse troppo rigido, che sfocia in più punti nella ridondanza. Sono soprattutto i movimenti degli attori, anzi precisamente i loro corpi, a farne le spese. Intendiamoci, la prova attoriale è decisamente notevole, e questo vale non solo per Vladas Bagdonas (Faust), austero e incisivo, ma anche, anzi soprattutto, per la recitazione solida e vitale di Elzbieta Laténaité (Gretchen); tuttavia la ripetizione ossessiva dei gesti, la stilizzazione eccessiva e l’insistito simbolismo sembrano imbrigliare i corpi fino a privarli di materialità e neutralizzare proprio l’elemento più caratterizzante e potente del teatro di Nekrošius, la corporeità. Si ha l’impressione di un vero e proprio virtuosismo che, sebbene di alto livello, corre troppo spesso il rischio dell’autoreferenzialità.





Faust
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