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Come prima, meglio di prima

di Roberta d'Errico
 
Data di pubblicazione su web 20/03/2007  

Come prima, meglio di prima è l’adattamento teatrale che Pirandello ricavò, nel 1920, dalla propria novella La veglia (1904). L’azione si apre in una pensione di cui è padrone Don Camillo Zonchi.

Qui è giunta Fulvia Gelli che, quella stessa notte, tenta di uccidersi con un colpo di pistola. Sbagliando mira, Fulvia si ferisce gravemente. In punto di morte desidera confessarsi e chiedere a Don Camillo il perdono per la sua vita dissoluta e per aver abbandonato, tredici anni prima, il marito e la figlia piccola. Il marito, informato dal prete, si presenta  a sua volta per confessare le sue colpe ed esprimere il suo rimorso, ma giunto sul posto incontra Marco Mauri. Questi, follemente innamorato di Flora (così si fa chiamare Fulvia), ha abbandonato per lei famiglia e lavoro: anche lui è pieno di rimorso per non aver subito confessato a Flora di essere sposato. Silvio Gelli, illustre medico, riesce a salvare la vita di Fulvia/Flora. A questo punto il dramma vive di vita propria rispetto alla novella che si chiude con la morte della donna. La colpa del marito è quella di aver approfittato della giovane età di Fulvia per esercitare su di lei un sadismo tanto fisico, quanto psicologico. In tutti questi anni Silvio ha fatto credere alla figlia, Livia, che la madre era morta.

 

Nonostante l’odio, Silvio e Fulvia concepiscono un’altra figlia. Fulvia abbandona Mauri e torna ad essere la signora Gelli, ma con un nome diverso, Francesca. Come un’estranea si confronterà con l’ostilità della figlia, ma anche con l’immagine che di lei è stata costruita nel ricordo e nell’assenza. Quando realizza che l’odio di Livia nei suoi riguardi ricadrà anche sulla bambina appena nata, dirà l’intera verità. Fuggirà di nuovo, come prima, ma meglio di prima, perché questa volta, anche grazie al tempestivo intervento di Mauri, porterà le figlie con sè. Il testo pirandelliano, attraverso trame complicate, arriva ad isolare un concetto semplice, ma essenziale: la profondità dell’amore materno, il solo in grado di restituire alla protagonista la coscienza e il coraggio dio un nuova vita. L’azione scenica è intessuta di situazioni ironiche, tragiche e grottesche, che rendono arduo il compito di chi desideri metterla in scena. Non è forse un caso che questa sia una delle opere meno rappresentate dello scrittore siciliano.

 

Nell’adattamento del regista Giuseppe Venetucci alcuni passaggi secondari dell’azione drammatica sono stati eliminati, ma la struttura dell’intreccio rimane invariata. La scenografia è concepita per essere identica lungo tutta la durata della rappresentazione. Ai lati della scena alcune porte, di fronte allo spettatore, sintetizzano un ambiente (quello della pensione prima, di casa Gelli poi); i personaggi le aprono, vi entrano ed escono quasi in un moto isterico. Due specchi pendono dall’alto, in corrispondenza della parete di fondo. Al centro una pedana, che nel corso dell’azione assume sempre più la valenza di un altare sacrificale. Le luci sono concepite per isolare il personaggio e metterlo di fronte alla necessità di confessarsi. Queste soluzioni scenografiche e registiche risultano inferiori al potere figurativo della parola pirandelliana. Il regista Venetucci inoltre non segue le didascalie dell’opera per costruire i personaggi.

Gli attori non corrispondono ai dettami descritti con minuzia e poesia da Pirandello. Ad esempio il ruolo del marito, è affidato dal regista ad un attore (Mico Cundari) di circa settant’anni, il cui aspetto non evoca la morbosa passione che scaturisce dalle parole di un uomo di cinquant’anni “ossuto” e “poderoso” (così lo vorrebbe Pirandello). Questa discrepanza genera a volte una comicità involontaria. L’unica concessione ad dettato pirandelliano è costituita dai capelli di Fulvia/Flora/Francesca, che l’autore vuole “ritinti d’un color fulvo acceso, che le avviluppano come in una fiamma lingueggiante il volto disperato”, segno tangibile e invadente di un vita vissuta nel peccato. Il tenore recitativo della rappresentazione non comunica allo spettatore il concetto, caro a Pirandello, della dicotomia volto/maschera, del dolore dell’uomo che di fronte a se stesso ha l’impressione di vedere un altro.



Come prima, meglio di prima
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