Dirigere a ventidue anni una piazzaforte in agonia con un manipolo di coetanei atterriti e inesperti è insensato ma questa storia è la storia di molte guerre volute da chi non combatte, imposte senza se e senza ma in nome di valori decisi in parlamento o nei quartier generali e poi delegati in un misto di convinzione e di inganno. Gli obiettivi sono chiari e perentori, le modalità assai meno. La storia raccontata da Joseph Cedar, benché riferita ad un episodio molto preciso e forse estremo (lultima settimana del plurisecolare forte di Beaufort, costruito dai crociati e conquistato in tempi ben più recenti dagli israeliani in occasione della prima occupazione del Libano) rispetta queste modalità e questa insensatezza.
E una storia insiene estrema ed esemplare, racconta, tratta dal libro del giovane giornalista israeliano Ron Leshem, la settimana di passione di un gruppo di giovani soldati, quasi abbandonati dai loro capi ma con una missione terribile: quella di sopravvivere ancora qualche giorno ai razzi e alle granate lanciate da hezbollah prima di mettere in atto i piani per il ritiro e di dare una prova spettacolare della volontà di pace di Israele con la distruzione del forte. Non una storia di guerra la definisce il suo autore, ma la storia di una ritirata. Ma prima che questa ritirata avvenga e che il forte, il 24 maggio del 2000, esploda in una, anche simbolica, lunga fiammata, il giovane Liraz Liberti, nella piccola enclave isolata dal nemico e dalle forze amiche, dovrà condurre una tremenda battaglia, dare un senso alla vita dei giovani incastrati nelloperazione, spiegare il perché degli attacchi improvvisi e delle morti casuali dei suoi, dare un senso ai momenti di pace, dare una ragione ai sopravvissuti, e dare una sepoltura ai morti. Dovrà cercare anche di dare un senso ai morti nella difesa di quella piazzaforte che deve essere distrutta, annullando così il senso di tutte quelle morti, anche le più recenti, come quella del giovane artificiere che valuta perfettamente la pericolosità della sua missione e a cui lo stato maggiore non dà alternative (straordinaria nella sua solennità premonitrice la scena della vestizione in quella tuta difensiva che si trasformerà in sudario).
In questo bel film la perdita di senso (ammesso che le guerre ne abbiano uno) è assoluta, le giovani morti sono, programmaticamente, superflue, la paura, la disintegrazione psicologica, sono, programmaticamente, effetti collaterali da dimenticare nellattimo stesso in cui lesplosione metterà fine al simbolo. Nessuno è al suo posto nella guerra, ma questo film diretto da un giovane e intrepretato da giovani coetanei dei personaggi rende come mai era forse stato fatto finora il senso dellerrore, delle distorsione, del tradimento che cè in ogni guerra.
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