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Il caso Mário de Sá-Carneiro

di Federico Pierotti
  Mario, ovvero me stesso, l'Altro
Data di pubblicazione su web 28/07/2003  
«Il cinema è la registrazione audiovisiva del teatro». In questo modo Manoel de Oliveira era solito rispondere, fino a non molti anni fa, a chi gli chiedeva conto della sua maniera di filmare, apparentemente così poco disposta a trarre profitto delle possibilità del mezzo cinematografico. L'affermazione ha carattere paradossale e, come tutti i paradossi, costituisce un invito a vedere i termini in gioco da una prospettiva nuova; basta pensare a film come Francisca, Le soulier de satin, Mon cas o ad alcune sequenze dei più recenti Inquietudine e Ritorno a casa, che, mentre sembrano limitarsi a mettere in pratica il dettato "riproduttivo", rimettono in discussione le convenzioni rappresentative del cinema.

Per Oliveira, il luogo migliore per fare teatro è il cinema; benché nei suoi film i materiali (testo drammatico, attore, scenografia) siano organizzati secondo modalità riconducibili in un modo o nell'altro al teatro, le sue frequentazioni teatrali sono del tutto eccezionali. Finora l'unico allestimento dell'autore risaliva al 1987, anno in cui aveva messo in scena per il Festival di Santarcangelo lo spettacolo De Profundis, ispirato ad un racconto di una sola pagina della sua scrittrice "prediletta", Agustina Bessa Luís: la storia di un uomo che, caduto per distrazione in un pozzo prosciugato, si lascia andare a meditazioni e interrogativi sul senso della vita. Ci sono voluti sedici anni, e l'invito di Marco Abbondanza - direttore artistico del festival di cultura lusofona Sete Sóis Sete Luas - per farlo allontanare di nuovo dalla macchina da presa (a proposito: il suo prossimo lavoro, Um Filme Falado, sarà presentato alla Mostra di Venezia) e convincerlo a rimettere piede sulle tavole del palcoscenico.

Il risultato sono i circa quaranta minuti di Mario, ovvero me stesso, l'Altro, tratto da un atto unico di José Régio, scrittore che Oliveira ha più volte "adattato" e con cui ha condiviso tante esperienze e riflessioni fin dai tempi del suo film d'esordio Douro, Faina Fluvial. La pièce - a cui Oliveira si è attenuto fedelmente - è estremamente semplice: nel «gran giorno» del suo suicidio (26 aprile 1916), il poeta modernista Mário de Sá-Carneiro - che trascorse l'ultimo periodo della sua vita a Parigi, dove intrattenne una lunga e tormentata corrispondenza con Fernando Pessoa - viene immaginato in una tremenda e ironica disputa verbale con l'Altro, un suo doppio mefistofelico che lo pone impietosamente di fronte alla miseria della sua vita, alla bruttezza del suo corpo grasso e all'illusorietà dei suoi ideali di bellezza e perfezione. Il dialogo è intessuto di continue sferzate verbali, a cui Mario - la Sfinge Grassa, come spesso si definisce - risponde in modo confuso e contraddittorio. Una terza figura, la Musa ispiratrice del poeta, entra spesso in scena, e apre la pièce declamando i versi conclusivi della poesia Álcool - unica interpolazione del testo di Régio, dettata dall'esigenza di far confluire sulla scena la parola poetica di Sá-Carneiro, pressoché sconosciuto al pubblico italiano.

L'allestimento scenico è quanto di più semplice si possa immaginare: nessun elemento scenografico, soltanto lo spazio nudo del palcoscenico tagliato in due trasversalmente da un velo trasparente, che separa Mario - che rimane sempre in scena, dalla parte del proscenio - dall'Altro, posto oltre il velo, come un'apparizione che emerge dal buio (che sia una metafora del cinema come doppio immateriale, illusorio e demoniaco del teatro?). Rivolto verso gli spettatori, costantemente provocato dall'Altro, il poeta cammina e gesticola disordinatamente, alterna momenti di immobilità ad altri di grande agitazione, urla, sussurra, ride. Al di là della cortina, osservatore ora ironico ora crudele, l'Altro, limita i suoi passi al minimo, si muove solo trasversalmente alla scena, come per seguire meglio gli spostamenti del poeta, per incalzarlo. Il velo si alza soltanto alla fine, quando l'Altro invade lo spazio riservato a Mario per somministragli «un nobile suicidio» sotto forma di sacramento, porgendogli un calice di liquido rosso che provoca la sua morte istantanea.

Il teatro oliveiriano - come del resto il cinema - prende vita dal senso che vi assumono i pochi elementi che vi sono convocati: la parola di Régio e di Sá-Carneiro, mantenuta nella musicalità del portoghese (lo spettacolo è stato accompagnato da sovratitoli); i tre attori che la trasformano in materia sonora, Rogério Vieira (Mario), grande attore del Teatro da Cornucópia di Lisbona, gli splendidi attori oliveiriani Diogo Dória (l'Altro) e Leonor Silveira (la Musa); il grande velo/schermo, e gli altri pochissimi elementi scenici, tuttavia indispensabili e sovraccarichi di senso: il flauto e lo specchio portati in scena dalla Musa, una pistola scarica tenuta in tasca dal poeta, il calice.

Nel corso dello spettacolo Mario pronuncia per due volte i versi di una poesia scritta poco prima del suicidio, significativamente intitolata Fine: «Quando morirò battete su barattoli, saltate e fate capriole, fate schioccare in aria le fruste, chiamate pagliacci e acrobati! Che la mia bara vada in groppa a un asino bardato all'andalusa: a un morto nulla si ricusa, ed io voglio, per forza, andar sull'asino!». Il desiderio del poeta è esaudito nell'epilogo, con l'irruzione sulla scena di un asino di stoffa accompagnato da un chiassoso corteo di saltimbanchi che accompagna festosamente - con pentole, tamburi e fruste - l'uscita di scena del corpo privo di vita di Mario. Oliveira non è nuovo a simili rovesciamenti del tragico nel burlesco; il caso più macroscopico lo si trova nel finale de I cannibali, ma in forme meno smaccate è rintracciabile un po' in tutti i suoi film.

Con un equilibrio che si confà a chi ha raggiunto la piena padronanza e consapevolezza dei mezzi impiegati, lo spettacolo propone quelli che sono i termini di una tensione costitutiva la forma della messa in scena oliveiriana, si tratti di cinema o di teatro. Da una parte, il teatro come luogo fisico dove dar voce, attraverso la parola e l'attore, ai casi dell'umanità, alle sue infinite storie; è la prima parte dello spettacolo, dove la riduzione degli elementi scenici e del cromatismo - tutto si riduce al bianco e al nero: i vestiti di Mario e dell'Altro, il bianco perlaceo dell'abito e della parrucca della Musa - sono funzionali alla centralità dell'espressione verbale.

Nell'epilogo, il teatro è il baraccone da fiera, la rappresentazione che il mondo dà di sé e che lo trasforma in un enorme palcoscenico: una moltiplicazione incessante di maschere, danze e cerimoniali cui corrisponde un'esplosione di gesti, colori e suoni, mentre la parola non ha più diritto di abitare la scena. Ed è proprio questo uno dei portati essenziali del pensiero di José Régio ("pirandelliano" se si vuole) sulla riflessione estetica di Oliveira, che si addensa in film come Mon cas (anch'esso ispirato ad un atto unico di Régio) e Ritorno a casa, e di cui Mario, ovvero me stesso, l'Altro rappresenta una distaccata e serena nota a margine. È il nuovo "caso" che si dà a vedere, nei suoi due possibili modi (oliveiriani) di esistenza: come messa in scena verbalizzata, filtrata da un'inevitabile mediazione intellettuale, culturale, e come rappresentazione immediata, gioiosa e disordinata di un mondo che è emanazione diretta del desiderio. Perché, come afferma il Presentatore di Le soulier de satin, «L'ordre est le plaisir de la raison: mais le désordre est le délice de l'imagination».

(I brani dello spettacolo citati nell'articolo sono tratti dal testo dei sovratitoli, messo gentilmente a disposizione da Marco Abbondanza).

Mario, ovvero me stesso, l'Altro
cast cast & credits
 



 


 

 



 

Opere di José Regio

 

 

 

 



 






Mário de Sá-Carneiro
Mário de Sá-Carneiro




 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

José Régio
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