Cera chi si aspettava il terzo capitolo della trilogia americana in salsa brechtiana che lamato-odiato furetto danese si era inventato qualche anno fa, suonando prima le campane di Dogville e poi quelle di Manderlay. Magari ci si aspettava il beneplacito di Cannes, lo spuntare di un altro premio sulla Croisette, il chiacchiericcio post-festivaliero e poi il buio in sala per un pubblico pronto ancora una volta a salire sulla giostra di un dogma anti-dogma. Pardon. Lars Von Trier in questi mesi ha fatto altro. Si è innamorato dell Automavision (diavolerie digitali: un programma computerizzato elaborato dal regista per prestabilire le inquadrature e i movimenti della mdp senza lintervento umano), si è ripreso alcuni attori di Idioti ed è tornato nella sua Danimarca. A raccontarci unaltra messinscena: commedia, commedianti, potere, soldi. Nellera evanescente e incorporea dellinformatica.
La commedia gira (su se stessa, per fortuna) intorno alla figura di un attore teatrale ingaggiato da una società danese per impersonare il presidente durante la firma di un importante contratto. Il grande capo. Il protagonista. La star. Il palcoscenico tutto per lui. Il sogno di ogni attore insomma, come lo era il grande Gambini (?), che facendosi beffe di Strindberg e Ibsen (i maestri calpestati e derisi, come tutta la tradizione teatrale del vaudeville e dei triangoli amorosi) mise in scena il monologo dello spazzacamino ne Il paese senza camini. Cè bisogno allora di una bella commedia degli equivoci (ma niente a che fare con Lubitsch o Capra, i maestri…) per attori degni di essere tali. Al bando i manuali: via il naturalismo, lo psicologismo, lo straniamento, il Metodo, limprovvisazione. Via tutto. Si torna al grado zero, per recitare le battute non si deve pensarci su, il palcoscenico stavolta è tremendamente reale, proprio perché fasullo. Niente a che fare naturalmente con riflessioni post-pirandelliane. La maschera e il volto qui la fa tutta Jens Albinus (Kristoffer nel film), il "capo" della comunità di Idioti, film riproposto per lappunto nel nuovo contesto di una società finanziaria di oggi. Dove, a quanto pare, gli idioti abbondano, e non solo nei dialoghi.
Siamo nei pressi di The Kingdom e de Le cinque variazioni quanto al tono generale del film, a quel misto cioè di nichilismo assoluto travestito da ironia che regola il gioco delle parti di questa strampalata, ma dolorosissima comunità dei sei anziani. Battute al vetriolo, situazioni paradossali, eventi e personaggi sospesi tra il grottesco e il fumettistico, persi nei meandri asettici di un anonimo luogo affetto da psicopatologia collettiva, fanno de Il grande capo una sorta di rebus cubico sullidentità del Potere. Gioco, recita, teatro, finzione. Uomini e/o attori? Eppure a regolare i rapporti aziendali nellufficio le persone vere ci sono. Eccome. E si gioca sulla loro pelle. E la regola (ce ne fosse solo una) del gioco. Ma il film non prende mai le derive del moralismo, anche perché ci sono in scena troppi contratti da firmare su qualsiasi cosa per credere di poter fare della satira sociale. Sembra che alla fine di questa messinscena, dove ritorna continuamente, come in una ronde, lestremo compiacimento naif e superomistico dellattore, pronto a sacrificare tutto per la ribalta, resti solo lui, lattore, appunto. E tutto il resto viene costretto a inscatolarsi, a fare i bagagli.
La realtà, sembra suggerirci Von Trier, vince sempre sulla finzione, massimamente poi su quella del cinema, stretta comè nei suoi linguaggi asettici di zoom e campi lunghi. Sarà per questo che varrà la pena continuare a giocarci con i generi, i set, i set nel set, e tutto larmamentario che ancora oggi riesce a confondere i due piani della questione: realtà e finzione. Viene in mente un vecchio motto di Lucrezio: "Niente somiglia a se stesso in questo mondo dove niente è stabile. Di stabile cè soltanto una violenza segreta che sovverte ogni cosa". Siamo sicuri che non sia Il grande capo il finale della trilogia sullAmerica?
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