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Danza di morte per Beckett

di Siro Ferrone
  Samuel Beckett
Data di pubblicazione su web 05/11/2006  

Sotto il titolo Dramaticules questo spettacolo della Comédie Française rappresentato nello spazio ridotto dello Studio-Théâtre della Galérie du Carrousel du Louvre, nel quadro del Festival d’Automne, raccoglie cinque brevi atti unici di Samuel Beckett: Cette fois, Solo, L’impromptu d’Ohio, Fragments de théâtre II e Quoi où. La regia è di un ottimo attore quale Jean Dautremay, questa volta passato dall’altra parte della scena a dirigere quattro interpreti, solo nell’ultima pièce tutti insieme sul palcoscenico. Ma è difficile distinguere le componenti del puzzle tragicomico di Beckett. I diversi dramaticules si fondono l’uno nell’altro senza soluzione di continuità come apparizioni o meglio resurrezioni nel giorno dei morti. In una unità di tempo che è il risultato più interessante della messa in scena. 

 

In un lungo piano sequenza nero si accampano grazie a luci che sono come fuochi fatui – i francesi chiamano feux follets queste accensioni chimiche dovute a combustione di materiali morti – di esseri trapassati, residui cadaverici della vita: così Dautremay mette in scena i monologanti di Beckett, figure spettrali come tanti risorti padri di Amleto, dai lunghi scomposti capelli bianchi che cadono su cappotti grigiastri (ricordando un tratto caratteristico del teatro di Ronconi), la voce talvolta riflessa dal playback, circondati da colori diafani illuminati con tagli impressionistici che poi – via via, con il progredire del tempo teatrale – si allargano fino a esporre alla nostra vista tutta la scena, ma anche questa impastata di colori acidi . Lo sguardo è comunque filtrato da un sipario di tulle che rende ancora più profonda la caverna in cui i personaggi sono incistati.

Solo nel finale si accenderanno le luci di proscenio. D’improvviso le apparizioni di morti viventi, resuscitati dalla memoria, danno corpo a una comica danza macabra sotto i riflettori, finalmente maculati dalle tinte acide di un teatro d’avanspettacolo spassoso e disperato: in fine di “partita” i quattro sopravvissuti si rivelano essere attori di uno spettacolo infinito e impegnato a illudersi di essere vivo, ordinato e diretto dalla voce off  cinica e imperiosa di un dio metteur en scène crudele.

I nostri personaggi si scoprono allora nient’altro che commedianti confusi e impacciati chiamati a provare e riprovare (in francese suona più tragicamente metafisica la parola répétition) una povera vita. Il tema di sempre di questo grande scrittore biblico. 

La finestra che nel frattempo si è aperta sullo sfondo (tema questo caro al simbolismo di primo Novecento, qui ripreso in chiave parodica) ha un valore simbolico: boccascena dentro al boccascena, teatro dentro al teatro. In quella miniatura di finzione si succedono i segni delle stagioni, suggerite da effetti teatrali primari, quasi infantili. Lo scrittore e i suoi attori – e l’allestimento asseconda bene in questo i testi – possono solo parodiare, dal basso della loro meschina esistenza, la percezione del tempo, la sovrana e implacabile legge che governa l’universo. 

 

Una rappresentazione che non può essere altro che una “banalità” risibile, scenotecnica primaria. Gli attori riescono a suggerire questa percezione della vanità del teatro come di qualunque tentativo umano di comprendere l’universo. Anche se talvolta troppo timido, decisivo è il gioco dei contrappunti: contro la parete di un linguaggio che precipita a ondate e a strappi, vaniloquio senza senso, i gesti dei recitanti sono tanto più comici quanto più apodittici. Si credono attori protagonisti e non sono che comparse. 

Umilmente e con una tenitura ritmica che mi è parsa senza falli, i compagni di Dautremay (Michel Robin, Jean-Baptiste Malartre, Alain Lenglet, Pierre Vial) sono ottimi strumenti delle volontà testamentarie del grande autore franco-irlandese.




Lettere da Parigi
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