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La maledizione del tenore

di Paolo Patrizi
  Il Coro del Teatro Regio (atto II)
Data di pubblicazione su web 09/07/2006  

Prima di qualsiasi considerazione strutturale (l'estrema lunghezza dell'opera, il suo drastico ridimensionamento da cinque a quattro atti…), alla radice della mancata popolarità di un capolavoro come Don Carlo c'è il disamore da parte di molti tra i maggiori tenori del ventesimo secolo. Sta di fatto che Pertile, Lauri Volpi, Gigli, Del Monaco e Di Stefano non hanno voluto accostarsi a quest'opera. Corelli ha affrontato spesso il titre rτle, ma trasformandolo in una sorta di Ernani o Manrico postdatato, rifiutandone quell'aspetto da antieroe al centro della concezione di Verdi. E Pavarotti l'ha cantato in un'unica occasione (Scala 1992), appena abbozzando il ruolo, con un esito infelice che – con il senno di poi – ha rappresentato l'inizio della sua parabola discendente. Un personaggio tenorile carente di autentica tenorilità (anzi, perfino epilettico) è insomma colpa grave, in un'ottica "all'italiana". Non sarà un caso se la "Don Carlo renaissance" degli anni Cinquanta è stata veicolata da altri fattori: il Filippo II di Boris Christoff, il Rodrigo di Tito Gobbi, l'Inquisitore di Giulio Neri; e se, successivamente, la fortuna dell'opera è passata attraverso memorabili direzioni d'orchestra e grandi regie (Visconti l'affrontò ripetutamente tra il '58 e il '74), senza che i tenori abbiano avuto un peso decisivo.

Tra le grandi regie, però, sarebbe azzardato inserire la messinscena di Hugo De Ana, nata a Madrid, già vista a Genova e ora approdata a Torino. Innanzi tutto è bene sgombrare il campo dall'equivoco di vedere in quest'allestimento, come si è scritto da più parti, un'ideale filiazione dello spettacolo viscontiano. Quel Don Carlo, come sa chi abbia avuto la fortuna di assistervi (dimentichiamo quei falsi che sono state le recenti riprese romane e fiorentine affidate all'assistente dell'ex assistente di Visconti), era basato su un rapporto ossimorico con la musica: alla cupezza della tinta verdiana faceva efficacissimo riscontro una Spagna di luce accecante, quasi da corrida nel suo gioco al massacro contro ribelli ed eretici. Qui, invece, il rapporto è tautologico: alla tenebrosità corrisponde una messinscena cupa, con palcoscenico spesso in penombra se non al buio.

Comunque, il De Ana scenografo e costumista ha mano felice nel ricostruire un Rinascimento spagnolo debitamente fastoso. Il De Ana regista, invece, oscilla tra calligrafismo tradizionale, leziosità (il paggio Tebaldo trasformato in un buffoncello scodinzolante) e stravolgimenti drammaturgici: azzerando il senso del libretto e seguendo una vulgata alternativa del dramma, qui Filippo pugnala il proprio figlio. Inoltre, nello scontro tra il re e l'Inquisitore, quest'ultimo si trasforma in un vecchio tremolante – lontanissimo dal nonagenario concepito da Verdi, ormai fuori da qualunque limite biologico – che alla frase "Che vuol il re da me?" sembra venir colpito da apoplessia; e ciò, oltre che arbitrario, non ha neppure il pregio dell'originalità: già lo fece Ronconi alla Scala nel '78. Qualcuno dovrebbe poi spiegare a De Ana che se Filippo II dice "quei doppier presso a finir", non si può vedere in scena un'unica candela; ma questo, conveniamone, è un peccato veniale.

Violeta Urmana e Marcello Giordani (atto I)
Violeta Urmana e Marcello Giordani (atto I)


Da un direttore come Semyon Bychkov, che ha il dono di aprire spiragli inconsueti su partiture logorate dall'uso e dall'abuso (si pensi alla sua Bohème), ci si poteva aspettare di più d'un Don Carlo ben suonato, ma senza una precisa calibratura di rapporti tra i due versanti – il politico e il privato – dell'opera e, comunque, tendente al fragoroso, piuttosto che al monumentale. In questa prospettiva è sintomatico che Bychkov, pur optando per l'edizione ridotta in quattro atti, ripristini un frammento tendenzialmente enfatico come l'Allegro "Sì, l'eroismo è questo", blocco centrale – espunto da Verdi nel corso di una delle tante revisioni – dell'ultimo duetto tra tenore e soprano. Assai più felice l'innesto (la pagina apparterrebbe solo alla versione "lunga") della trenodia di Filippo sul cadavere di Rodrigo: un tema che Verdi riproporrà nel "Lacrymosa" del Requiem. Sono operazioni di montaggio invise al filologo fondamentalista, ma che giovano a un'"opera aperta" come Don Carlo: anche se rafforzano il sospetto di un'interpretazione ondivaga, in cui il concertatore non riesce a individuare una vera chiave di lettura.

In palcoscenico domina il Filippo II di Ferruccio Furlanetto. L'emissione non brillava per fluidità neppure nei suoi anni verdi, e sarebbe inutile presumere che ciò possa accadere oggi, con la voce ormai un po' in disordine. Il timbro, però, è ancora vivido e – cosa più importante – molto personale, riconoscibile al primo ascolto. Il fraseggio, scavatissimo, ricostruisce in modo esemplare l'arco psicologico del personaggio, evidenziando del potente l'arroganza come le macerazioni. E la presenza scenica è quella del cantante-attore di alto rango.


L'Incoronazione di Filippo II (atto II)
L'Incoronazione di Filippo II (atto II)


 

Gli altri restano indietro di alcune spanne, ma Violeta Urmana e Roberto Frontali siglano due buone prove. Lei, ormai definitivamente passata al registro di soprano, mantiene del mezzosoprano qualcosa in termini di psicologia, prima ancora che di colore: resta l'impressione che il personaggio di Eboli le calzasse meglio, ma la vocalità di Elisabetta è comunque perfettamente dominata, nel canto per piccole progressioni di "Non pianger mia compagna" come nell'ampia intervallistica di "Tu che le vanità". Frontali, a suo agio più nei ruoli di antagonista che in quelli di baritono grand seigneur, cerca di plasmare un Rodrigo nobile e cavalleresco, mortificando la naturale esuberanza della sua voce. Non sempre il gioco va a buon fine: il timbro ne esce impoverito, senza per questo raggiungere un'autentica sofficità. Ma se l'avvio è un po' incerto, poi si riscatta ampiamente.

Più interlocutoria la prova di Mariana Pentcheva, una Eboli forse più sopranile dell'Elisabetta della Urmana: la voce è ormai disomogenea – acuti penetranti ma in tensione, centri corposi, gravi affievoliti – e la spavalderia con cui affronta il personaggio non arriva a farle azzardare (almeno nella recita di cui si dà conto) il Do sopracuto di "O don fatale". Eric Halfvarson è uno specialista dell'Inquisitore, ma la sua raffigurazione – molto aggressiva, sul piano vocale – appare dissociata alla luce degli input registici di De Ana. Nei panni del protagonista, Marcello Giordani: apprezzabilissimo in altre occasioni, qui appare stentoreo e in lotta con l'intonazione. A conferma che Don Carlo non porta fortuna ai tenori.


 




Don Carlo
opera in quattro atti


cast cast & credits

 Torino, Teatro Regio, 15 giugno-2 luglio



 

 
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