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L'orgasmo del potere

di Paolo Patrizi
  Macbeth
Data di pubblicazione su web 24/06/2006  

''O voluttà del soglio! / O scettro, alfin sei mio; / Ogni mortal desio / Tace e s'acqueta in te''. È in questi versi pronunciati da Lady Macbeth nell'aria ''La luce langue'' – forse l'unica aggiunta risolutiva operata nel 1865 da Verdi, rispetto a un'opera perfettamente compiuta già nella stesura di diciotto anni prima – che è racchiuso, per Liliana Cavani, il nocciolo di tutta tragedia. Il che, in fondo, è solo una forma più elegante (sebbene i versi di Piave non siano sopraffini) della greve ma icastica espressione ''è meglio comandare che fottere'', cara a tanti politici di ieri e di oggi. La Cavani lo illustra esplicitamente, con la mancanza di reticenza propria della sua matrice di regista cinematografica, senza che ciò si traduca – come talvolta accade a chi passa dal set al palcoscenico – in eccesso didascalico: avvinghiata nel proprio sterile talamo nuziale, la coppia assassina quasi compulsivamente tenta ancora un amplesso; ma l’omicidio e la corona hanno svuotato il Macbeth di Leo Nucci d'ogni afflato di virilità, e la Lady di Sylvie Valayre si lascia andare a un surrogato orgasmico nel pregustare l'uccisione di Banco e, con essa, un trono non più vacillante.


 


Macbeth


È il momento più efficace di uno spettacolo che, per il resto, ruota attorno al consueto meccanismo – comunque sviluppato con coerenza ed eleganza figurativa, grazie anche alle scene di Dante Ferretti e ai costumi di Alberto Verso – del sincretismo temporale: abiti seicenteschi per i personaggi della tragedia, ma novecenteschi (anni Quaranta) per coro e comparse. La regista, infatti, ambienta la vicenda in un teatro, o meglio nelle sue sventrate vestigia, a memento degli orrori delle guerre in ogni epoca, con i coristi che vestono i panni di spettatori. E anche il pubblico in sala si appropria della loro percezione del dramma, anziché identificarsi nell’angolazione del protagonista: la Cavani sceglie non ci mostrarci il fantasma di Banco, lasciando Macbeth urlare di terrore davanti a una sedia vuota.

Il gioco del teatro nel teatro, peraltro, porta a qualche effetto troppo insistito (i continui cambi di scena vengono ogni volta ''riempiti'' dal muto dialogare dei finti spettatori) e a esiti non sempre vantaggiosi per la musica: avere il coro femminile dislocato in diversi settori del palcoscenico – le streghe al centro, le spettatrici anni Quaranta ai lati – ha implicato qualche sfasatura di sincronizzazione. Tuttavia, proprio le streghe hanno rappresentato uno dei momenti più felici della lettura della Cavani: non figure extraterrene, ma donne del popolo (appaiono come lavandaie intente a sciacquare il bucato) che, conoscendo a fondo la natura umana, racchiudono nelle loro profezie una somma perspicacia, più che un'autentica chiaroveggenza. Sporche, lacere, ''diverse'' e per questo – ma solo per questo – streghe: sicché la loro ''sordida barba'', di cui Banco si meraviglia, non è autentica peluria ma una barba finta, indossata per provocare i maschi.
 


Macbeth


 Ai due protagonisti va dato atto, innanzi tutto, di aver assimilato con esemplare duttilità i molteplici input registici. Inoltre, se in altri personaggi gli attuali mezzi di Nucci (ormai logorati da una quarantennale carriera) e quelli della Valayre (ancora abbastanza freschi, ma con forti limiti naturali) non possono non destare perplessità in una critica che voglia dirsi, almeno in minima parte, vocalistica, Macbeth e la Lady fanno storia a sé. Quando Alessandro Lanari – l'impresario della Pergola di Firenze, dove l’opera ebbe battesimo – suggerì per protagonisti Eugenia Tadolini e Gaetano Ferri, Verdi respinse le candidature, adducendo che la prima ''canta alla perfezione (...) ed io vorrei in Lady una voce aspra, soffocata''. In quanto al secondo, ''senza nulla togliere al merito di Ferri che ha (...) più bella voce e se vuoi è anche miglior cantante, non mi potrebbe certamente fare in quella parte l'effetto che mi farebbe Varesi (Felice Varesi, poi primo interprete anche di Rigoletto e Giorgio Germont: n.d.r.), il solo artista attuale in Italia che possa fare la parte che medito, e per il suo genere di canto e per il suo sentire''.

Sembra un giudizio su misura per l'affaticato Leo Nucci: l'emissione è ormai ben sostenuta solo sul forte, con conseguente drastica riduzione del gioco dinamico, e i rari tentativi di mezzevoci si risolvono in suoni torbidi. Tuttavia, in un ruolo dove prevalgono indicazioni come ''con voce cupa'' e ''con voce oscillante'', e per il quale l'autore si raccomandava di declamare più che di cantare, Nucci, fraseggiatore sensibilissimo, riesce davvero a rendere giustizia alle intenzioni verdiane: anche se l'unico grande momento cantabile – l'aria ''Pietà, rispetto, amore'' – lo trova, inevitabilmente, sulla difensiva. Analogo discorso, in linea di principio, si potrebbe fare per la Valayre: ma qui, davanti ai limiti oggettivi della vocalista (acuti forzati, ottava bassa piuttosto vuota, agilità spesso spianate), il talento della cantante-attrice non arriva a pareggiare veramente il conto. 

 


Macbeth
 

Enrico Iori è un Banco di contenute risorse timbriche, ma la voce s'impone comunque per volume e ricchezza di vibrazioni. Roberto Iuliano sbozza un Macduff generoso e svettante nei momenti d'insieme, più che nella propria aria, magari a prezzo di un’intonazione un po' ondivaga. La dama di Tiziana Tramonti e il medico di Enrico Turco – artisti di taglia tutt'altro che comprimariale – garantiscono un plusvalore alla scena del sonnambulismo. Sul podio Bruno Bartoletti, che da lungo tempo affronta questa partitura, spesso ripensandola nei dettagli: a Parma si sono ascoltate scelte agogiche molto marcate, ma con sostanziale privilegio degli stacchi lenti (la marcia di Duncano e del suo seguito, definita nel libretto ''musica villereccia'', si trasforma in una sorta di marcia funebre, quasi un presagio dell’imminente assassinio); grande precisione ritmica, anche a costo di rinunciare a una certa flessibilità (così almeno è sembrato nel brindisi); e una generale tendenza – che sembrerebbe guardare al Macbeth di Gui, forse anche a quello di De Sabata – a privilegiare nell'opera il declamato ''aperto'', piuttosto che la struttura chiusa.



Macbeth
Melodramma in quattro parti


cast cast & credits
 
trama trama

Teatro Regio di Parma

 
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