Tra animali feroci e uccelli di ogni tipo, lingue di fuoco e distese d'acqua, quello del Flauto magico è un testo ai limiti dell'irrappresentabile. Ma se la ricerca antinaturalistica e l'astrazione figurativa sono per quest'opera un dato acquisito, oggi è forse più affascinante tentare un percorso di segno uguale e contrario: mantenere ogni presenza ed elemento scenografico previsti dal libretto, reinventandone la forma attraverso la corporeità.
È quanto accade in questo fortunato allestimento nato al Regio di Parma una decina di anni fa, poi riproposto in altri palcoscenici e ora tornato a casa, ovvero sulle tavole del teatro parmigiano. Rinunciando a qualunque barlume di scenografia (ma i costumi di Romeo Gigli sono bellissimi e le luci hanno tale ricchezza da svolgere un'ideale funzione di arredamento), lo spettacolo lascia agire sul nudo palcoscenico solo figure umane: in tutta la loro plasticità, in tutte le loro possibili combinazioni. E s'intenda ''combinazione'' proprio nel significato chimico del termine: i corpi dei sette danzatori del Pilobolus Dance Theatre, unendosi e intrecciandosi, danno vita ad altre fisicità, ogni volta nuove e ogni volta diverse. Delle vere e proprie ''scene viventi'', insomma, dove un intrico di teste, gambe e braccia danno vita ai due archi ogivali del palazzo di Sarastro; e in cui un nodo avviluppato di schiene e di glutei si trasforma, miracolosamente, nelle varie creature silvestri che popolano la vicenda.
Giuseppe Filianoti (Tamino) e Pilobolus Dance Theatre, foto Roberto Ricci
Il tutto, si badi, senza che la coreografia debba surrogare un pensiero registico: qui siamo lontani dall'incontro (caso frequente, negli ultimi tempi) tra un artista di grido prestato alla scenografia e un regista famoso costretto in una cornice che gli è estranea. Stephen Medcalf opera in perfetta unità d'intenti con i Pilobolus, dando vita a un Flauto di grande scioltezza narrativa, più intenerito che comico e senza preoccupazioni verso sottotesti filosofici. Anche gli unici sei oggetti presenti in scena sono metafore leggibilissime, e non per questo didascaliche: da un lato – simboli di comando – il flauto di Tamino, il pugnale della Regina della Notte e un bastone; dall'altro – simboli di seduzione – il glockenspiel di Papageno, la cornice del ritratto di Pamina e una mela: unico cibo per l'iniziando Papageno, ma anche primo elemento di corruzione nella storia dell'umanità.
È una disdetta che a uno spettacolo di tale bellezza debba corrispondere un'esecuzione musicale modesta, ma tant'è. Violinista passato al podio, Jean-Christophe Spinosi imprime all'opera un passo piuttosto flemmatico, almeno all'apparenza. Più che in assoluto, i tempi sono lenti in rapporto alle sonorità adottate: una Zauberflöte di timbrica schiarita e tenuità di pesi sonori, qual è la sua, dovrebbe trovare il suo logico corollario in un'agogica più nervosa. Altrimenti si rischia d'innestare – e qui accade – allargamenti alla Klemperer su una tavolozza da barocchista.
Risultati discontinui anche sul fronte vocale. Perché, ad esempio, Giuseppe Filianoti mortifica il suo bellissimo timbro, autenticamente latino, schiacciando e sbiancando i suoni come un tenorino tedesco? Se di preoccupazione stilistica si tratta, è degna di altra causa: Tamino (così come lo delinea la tessitura, centralizzante e quasi baritenorile) è personaggio più ''eroico'' che ''di grazia''. Una vocalità mediterranea – aristocratica nel legato, ma vibrante nell'accento – sarebbe tutt'altro che fuori stile.
Stephan Genz è un Papageno simpatico (ma quale Papageno non lo è?), purtroppo di poca – troppo poca – voce. Alla Regina della Notte di Cornelia Götz spettano tutte le attenuanti della cantante piombata a sostituire la collega titolare: resta però il sospetto che fiati corti e modestia timbrica siano dei naturalia fisici che prescindono dalla situazione d'emergenza. Daniela Bruera, non potendo contare sulla levigatezza canora che di solito caratterizza Pamina, tende a far risaltare l'energia sottopelle del personaggio, la sua trasformazione da principessa delle favole a donna consapevole. Ci riesce ma a metà, perché arrivata alla grande aria in Sol minore – il vero biglietto da visita di questo ruolo – la mancanza di autentica purezza di emissione e di legato penalizzano la resa complessiva.
Giuseppe Filianoti (Tamino), Tölzer Knabenchor, foto R. Ricci
Gli altri si fanno onore: Steven Cole plasma un Monostatos efficace, sebbene all'interno di una raffigurazione puramente caricaturale; Siphiwe McKenzie è una Papagena cristallina e ruspante quanto basta; le tre dame (Sabina von Walther, Ursula von den Steinen e Annette Jahns) sono poco differenziate a livello timbrico, dunque si apprezzano non tanto per l'individualità quanto per l'impasto. Le cose migliori però vengono dalle voci gravi. Nonostante una certa usura (i suoni tendono a slabbrarsi), Mattias Hölle è un Sarastro profondissimo – onora la discesa, non scritta da Mozart, al Mi grave – e un fraseggiatore di ceppo forse troppo wagneriano, ovvero con una latente inclinazione declamatoria, ma nobile, severo, malinconico. E Panajotis Iconomou, morbida voce di basso-baritono, è un Oratore sapientemente in bilico tra aura iniziatica ed empatia verso il mondo degli umani.
Infine i tre genietti, visti da Medcalf come dei ragazzini in pigiamino. A incarnarli, altrettanti solisti dei Tölzer Knabenchor: esemplari per amalgama, eccellenti per intonazione e privi di tutte le tradizionali leziosità.
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