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Il gioco della società

di Sara Mamone
 
Data di pubblicazione su web 12/10/2006  
Con L’ivresse du pouvoir Claude Chabrol firma l’ennesima opera acuta e incalzante (spesso nella prediletta forma che sta a metà tra il giallo e la comedie des moeurs) sulla società borghese, spesso presa nelle sue particelle costitutive di base (rapporti di coppia, rapporti di amicizia etc.).

Anche qui, volendo, si parte da un rapporto di coppia tra persone legate da una lunga consuetudine che si slabbra nei soli incontri serali (a animi e corpi spenti dalla pratica giornaliera del lavoro altrove) nella perfetta casa di un solido agio elegante, e anche qui, volendo, entra in gioco con la forza della novità, della giovinezza e della spensieratezza un elemento esterno, il nipote un po’ scapestrato del marito a ingarbugliare un gioco di sentimenti troppo a lungo intorpiditi. Ma questa trama apparente non interessa Chabrol più di tanto, se non giusto per fare restare il suo film nell’ambito in cui lo spettatore se lo aspetta. Ma la sorpresa giunge ben presto, ed è nel mestiere della protagonista che ha in questo trasferito tutte le sue energie migliori (o forse non solo quelle), un mestiere che di per sé la mette in primo piano nel ruolo sociale ma che soprattutto, con i tempi che corrono, ne fa il perno vitale di una società funzionante.

Funzionante? Proprio questo sembra divenire a poco a poco il tema del film, perché la signora, Jenne Charmant (affascinante, ammaliatrice, seduttrice, strega, cosa vuol dire esattamente il suo cognome?) non è una signora qualunque: è un giudice istruttore acutissimo e integerrimo, votato con tutta l’anima (di corpo ne rimane poco nella magrezza ammaliatrice di Isabelle Huppert) alla sua missione. Ad essa, al trionfo della giustizia, la signora ha delegato ogni sua energia, ogni sforzo, ogni piacere. L’ebrezza, l’ubriacatura di cui parla il titolo sta proprio in questo amore, in questa identificazione totale per la giustizia a cui la Francia ha già pagato un terribile scotto nella sua fase rivoluzionaria (quante teste sono cadute in nome della giustizia?).

La signora ha tra le mani un’inchiesta delicatissima, di quelle che affondano il bisturi nel marcio dei rapporti tra poteri dello stato, tra intrecci istituzionali e derive personali, di cui ben conosciamo purtroppo l’infittirsi nella società odierna. I suoi interlocutori sono quindi persone illustri, potenti, pericolose. I giornali sono in allerta, la sfida alza il tiro. Fino a quando l’eroina resterà nell’ambito dell’esercizio della giustizia e quanto invece tracimerà nel piacere del potere, un potere sempre più grande tanto più incalzanti si fanno i suoi riscontri, mentre l’implacabile evidenza delle prove stritola gli abili escamotages linguistici e retorici di indagati sempre più importanti? Mentre la vita privata di questi si sfarina nella messa a nudo di miserie anche private aumentano i segni dell’importanza del giudice, con l’infittimento delle apparizioni giornalistiche, le interviste, il salto di qualità di una vita con la scorta (non perdersi il sublime godimento viperino della protagonista nella simmetrica acquisizione di quei privilegi che sta togliendo agli altri). Né pare importarle più di tanto lo sfinimento della sua vita privata nel risarcimento di una vertigine moralizzatrice.

Ma fin dove può arrivare questo gioco? Maestro di cinema e non di pamphlet politici (certo siamo lontani dal nerbo di alcune opere italiane quali l’ Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), Chabrol riprende poi apparentemente una strada più privata (la separazione dal marito, l’amicizia con la collega che le hanno affibbiato come collaboratrice, l’incontro in ospedale con un potente corrotto di cui ha annientato la personalità, gli scherzi col nipote, etc.) e lascia un finale aperto ad ogni conclusione. Ma prima di “non” giungere al finale ha guidato lo spettatore in un godibilissimo percorso, con una sceneggiatura lineare nello svolgimento, mentre i dialoghi brillanti e la equamente distribuita bravura degli interpreti regalano un piacere cinematografico di grande qualità: il discours c’è (immaginiamo già in Italia le ipotesi di somiglianze e le opposte imputazioni di coraggio e reazionarietà) ma sempre imbrigliato dal gioco della macchina da presa e, soprattutto, dalla scelta di interpreti perfetti: vorremmo citare soltanto la squisitezza attorica durante la deposizione di un faccendiere, costretto all’ammissione di gestioni “autocaritative” di alcuni organismi no profit.

Se vogliamo appesantire il senso di un bel film in una morale problematica potremmo forse aggiungere una radicale perplessità del regista di fronte alla frase che riassume il senso dell’organizzazione dello stato francese, della fiducia istituzionale: “Les hommes passent, les institutions restent”. Forse un dubbio comincia ad insinuarsi sulla tenuta delle istituzioni medesime?





La commedia del potere
cast cast & credits
 

 




 



 

 

 



 

 








 
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