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La strada per l'inferno

di Federico Ferrone
 
Data di pubblicazione su web 16/02/2006  

Il campo di detenzione americano di Guantanamo è una delle più gravi macchie nella coscienza delle democrazie contemporanee. Quanto è accaduto e sta ancora accadendo ai prigionieri rinchiusi al suo interno in nome della "guerra al terrore" post 11/9 non è stato completamente delucidato, ma di certo elementi quali il trattamento riservato ai detenuti e l’ arbitrarietà nella scelta di questi ultimi costituiscono questioni della massima gravità.

La cosa può dunque disturbare, ma gli argomenti seri si possono abbordare anche dal lato comico. Quando durante l’occupazione dell’Afghanistan l' esercito americano scoprì tra le fila dei Talebani anche un americano, il californiano John Walker Lindh, convertito all’ islam e partito per l’ Afghanistan per studiare da mujahiddin, Daniele Luttazzi ha parlato del "peggior progetto Erasmus della storia". Allo stesso modo, la storia vera dei quattro ragazzi inglesi protagonisti del film di Winterbottom e Whitecross entra di diritto tra i peggiori addii al celibato che si ricordino a memoria d´uomo.

Fine della parte divertente e inizio della storia vera.

Ruhal Ahmed, Shafiq Rasul, Monir Ali e Asif Iqbal, inglesi di origine pakistana e bengalese, avevano tutti tra i 19 ed i 23 anni quando nel settembre 2001 partirono dalla loro città, Tipton, vicino a Birmingham, per Karachi per il matrimonio dell’ultimo. Il soggiorno in Pakistan si annunciava per i quattro come una vacanza tra amici e al contempo un modo per rivedere il paese dei propri genitori. Arrivati a Karachi, decisero di dormire in una moschea per risparmiare i soldi dell’ ostello, incontrando qui un imam che cercava volontari per aiutare i correligionari afgani minacciati dai possibili bombardamenti americani. Poiché in Pakistan nessuno considerava davvero realistico un attacco, i quattro si imbarcarono su un mini-bus per Kandahar, con lo spirito di un week-end avventuroso. Da quel punto la loro vita ha preso una svolta tragica. Arrivati la prima notte di bombardamenti, fuggirono dapprima verso Kabul, poi verso la frontiera pakistana trovandosi però sempre più nel cuore del conflitto armato e perdendo le tracce di Monir, sparito durante un attacco e da allora mai più ricomparso.

 

Due protagonisti del film, ex detenuti nel carcere di Guantanamo
Due protagonisti del film, ex detenuti nel carcere di Guantanamo


 I tre rimasti, accolti da uno degli ultimi gruppi di combattenti pro-talebani, vennero catturati dall’Alleanza del Nord, imprigionati in un carcere dalle condizioni inumane e poi consegnati alle forze americane. Dopo essere stati internati in un campo statunitense nel nord dell’Afghanistan, verranno poi inviati a Guantanamo, dapprima nel campo di detenzione X-Ray e poi nel Camp Delta, dove tra torture e privazioni, saranno sottoposti ad interrogatori e minacce da parte delle autorità americane che li consideravano membri di Al Qaeda e compagni di Bin Laden. Dopo più di due anni di un simile trattamento, senza poter comunicare con il mondo esterno, il 5 marzo 2004 sono stati liberati per mancanza assoluta di prove a loro carico e rimpatriati a Tipton.

"Docu- fiction" è un termine spesso vago perché non definisce esattamente i limiti e gli intenti di un' opera cinematografica, eppure si adatta bene per definire Road to Guantanamo, un film che ricostruisce la vicenda dei ragazzi di Tipton come un documentario, mostrando dunque le interviste dirette ai protagonisti di tale storia, ricorrendo però alla finzione e ad attori per illustrarne il racconto. Michael Winterbotton e il suo montatore Mat Whitecross hanno ricostruito l' incredibile storia dei "quattro di Tipton" giocando su un efficace montaggio che alterna tre piani narrativi: le interviste ai tre ragazzi sopravvissuti, una parte predominante di finzione in cui sono ripercorse tutte le fasi più tragiche della storia, dal Pakistan a Cuba, ed infine alcune immagini di archivio, riguardanti soprattutto Guantanamo e l'attacco all’Afghanistan del 2001.

Regista poliedrico, capace di film fortemente politici ma anche di opere di assoluto disimpegno (come l' adrenalinico 24 Hour Party People), Winterbottom torna ad occuparsi di Afghanistan come già nel bellissimo Cose di questo mondo - In This World (Orso d' oro a Berlino nel 2003), allargando la propria narrazione agli abusi patiti dalle vittime della "guerra al terrore" degli USA ed in particolare a quelli perpetrati a Guantanamo su persone estranee al terrorismo ma incarcerate, spesso per esili motivi, in nome della sicurezza planetaria.

I due registi, insieme ad una crew ristretta e orchestrata dal produttore storico di Winterbottom, Andrew Eaton, hanno creato un film straordinario sulla malvagità umana e l' impotenza delle vittime. Hanno contrapposto, senza filtri o eufemismi, la violenza brutale ed ottusa dei carcerieri dell´esercito americano con l´assoluta ingenuità ed il candore delle vittime innocenti, capitate in mezzo al caos della guerra e del terrorismo internazionale per puro caso e quindi incapaci di difendersi. Per tutto il film, alle torture e le umiliazioni dei prigionieri, rasati (segno esteriore di disumanizzazione, come accadeva per le vittime dei campi nazisti o i collaborazionisti dopo la Seconda guerra mondiale), isolati, picchiati, obbligati al silenzio e umiliati in tutti modi, si alternano le testimonianze dei veri protagonisti di questi maltrattamenti.


 In maniera sorprendente, Asif, Shafiq e Ruhel parlano della loro esperienza con candore, senza astio, come di un´ "esperienza che ha cambiato loro la vita", che li ha resi "più forti anche se li ha fatti soffrire", mentre chissà quanti, dall’esterno, tra il pubblico, hanno avuto reazioni ben più violente e radicali nei confronti dei torturatori. I tre personaggi principali non avevano contatti con l' islam radicale prima del viaggio in Pakistan e non ne hanno avuti in seguito. Essi raccontano di praticare oggi la loro religione un po’ più di prima ma ne viene fuori, per esplicita volontà degli autori, il ritratto di tre ragazzi comuni, quasi banali nella semplicità della loro vita prima del 2001 e nella loro incapacità di dare una spiegazione logica davanti a quanto è accaduto loro a Guantanamo.

The Road to Guantanamo gioca molto sull’ opposizione tra linguaggio della propaganda e lingua dei presunti colpevoli, tra immagine costruita "dall’ alto" e realtà quotidiana: la semplicità linguistica della propaganda americana è evidentemente menzognera ed è difatti smentita dall’ingenuità e l’impotenza della lingua dei tre presunti terroristi. Ai sillogismi dei torturatori americani ("Sei Pakistano?", "Allora sei di Al Qaeda", "Dicci dove si trova Bin Laden") si affiancano le parole dei veri Bush, Rumsfeld e di alcuni militari americani, che in immagini d’archivio parlano di "Bad guys" e "Vey bad people"; mentre a essi si oppongono le parole smarrite e lineari dei tre ragazzi inglesi reduci da Guantanamo.

Si tratta di un film importante, su un episodio che segna una fase nera della storia americana e mondiale, e un invito a riflettere andando oltre la semplicità di un certo linguaggio che parla di "fight of good against evil", ma nasconde che le prime vittime possono essere anche persone innocenti come i quattro di Tipton. Un'opera costruita in modo coraggioso, tra difficoltà logistiche ed anche umane. Non solo perché le riprese sono state effettuate in Iran e in Afghanistan, ma soprattutto perché la struttura narrativa é stata creata filmando e dando la parola a quelle stesse vittime del crimine che si é cercato di denunciare.

Chiudiamo come chiude il press kit del film, distribuito al Festival di Berlino: con l'immagine del cartello d' ingresso del Camp Delta di Guantanamo, sotto al quale è presente il motto "Honor bound to defend freedom". Sarà pure una guerra al terrore, ma ciò ricorda sinistramente quell’ "Arbeit macht Frei" di cui è superfluo ricordare la genesi.









The road to Guantanamo
cast cast & credits
 



 
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