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Un po’ di correttezza

di Sandra Lischi
  Carlo Cecchi in "Morte di un matematico napoletano" di Mario Martone, 1992
Data di pubblicazione su web 12/01/2006  

Fra le tante trasformazioni inflitte al nostro modo di scrivere (fra cui abbreviazioni selvagge, segni matematici o grafici che sostituiscono parole, ecc.) ce n’è una particolarmente sgradevole e immotivata: sempre più – quasi sempre ormai – si scrive po’ con l’accento invece che con l’apostrofo. Po’, è noto, è già un’abbreviazione, quella della parola poco. Da qui l’apostrofo. Cosa succede ora col dilagare della scrittura via computer e via telefonino? Che a scrivere correttamente po’ si impiegano tre “ditate” sulla tastiera: la p, la o e l’apostrofo. Invece, se si scrive con l’accento, le “ditate” sono solo due: la p e la o già accentata. Il tasto della o con l’apostrofo incorporato non esiste per ovvi motivi di infrequenza di tale segno grafico nella nostra scrittura.

Una ditata ci prende sì e no mezzo secondo. E noi, per risparmiare mezzo secondo (quando perdiamo ore e ore a mangiare cibo avariato ammannito dalla TV, o fermi in coda nel traffico) tradiamo la povera parolina togliendole il corretto apostrofo e storpiandola con un perentorio accento. Ora, la parola po’ è già una parolina breve e discreta, che non dà noia a nessuno, non occupa spazio e rivela la sua modestia anche nel significato: un po’, appena un po’. E’ una parola ridotta e che riduce, invita a non alzar troppo la cresta, ad aggiustare il tiro, a darsi una regolata. Non chiede niente, solo l’apostrofo che le spetta di diritto e che la rende leggiadra, allusiva, sottile e protesa verso quel che le manca, il resto della parola, a cui rinuncia di buon grado.

Invece noi, per risparmiare un microscopico mezzo secondo, le schiaffiamo un pesante accento sulla o, trasformandola in qualcosa che evoca, semmai, la meno leggiadra popò.

 




 

 

Tornate a squola
articolo di Roberto Fedi




 
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