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Tornate a squola

di Roberto Fedi
  Andrea Balestri in "Le avventure di Pinocchio", Luigi Comencini 1972
Data di pubblicazione su web 29/11/2005  
Uno degli argomenti preferiti in tivvù, nei programmini cosiddetti ‘culturali’ (cosiddetti, ripetiamo) e nei telegiornali a scadenze fisse, è quello della decadenza della lingua italiana. Bel tema. Che di solito viene affrontato con querimonie varie, interviste a qualche cruscante, un paio di parolette di speranza e via.

Bravi. Ora, la nostra impressione di persone che si occupano, anche professionalmente, di queste cosette, è che i medici dovrebbe per prima cosa curare se stessi. Ogni tanto ci è accaduto di dedicare qualche riga all’italiano in televisione: banale, di plastica, qualche volta ridicolo. Chi parla in televisione, i professionisti vogliamo dire e non gli ospiti dialettofoni di Maria De Filippi, usa di solito una lingua modesta, fatta di luoghi comuni e di aggettivi sempre al superlativo, di verbi standard e di ripetizioni altrettanto standardizzate, e spesso ridondante (“andiamo a vedere” invece di “guardiamo”, “di questo ne parleremo” e così via). È indice di sciatteria, di abbassamento della qualità, di infingardaggine ormai diffusissimi (possibile che non ci sia nessuno, per esempio in redazione nei tiggì, che non se ne accorga?).

Non ci era però ancora accaduto di vedere errori addirittura nelle tre-quattro parole che servono da titoletti nei telegiornali. Almeno quelli, uno pensa, li scriveranno con un minimo di attenzione. Figuriamoci.

Così al Tg5 di sabato 26 novembre, ore 13, è apparso questo titoletto d’apertura:  “Diamo un  pò  della  nostra  spesa a chi ne ha  più  bisogno”.  Anche  il nostro computer si rifiutava di scriverlo:   un  po’ vuole l’apostrofo, perché è il segno del fenomeno definito, nei manuali, apòcope: che si verifica quando in una parola cade l’ultima sillaba. Un poco, e quindi un po’.

Non siamo, per carità, dei pedanti. Né è, per carità bis, un peccato gravissimo. Tra l’altro così diffuso nei giornali che quasi ci siamo abituati (nei messaggini, poi, è la regola). Ma è un segno di trascuratezza, che una volta sarebbe bastato per una bocciatura in italiano, e che ora sembra normale. Anche un bel sintomo di ignoranza, diciamo la verità. Un po’ (appunto) curioso in chi, delle parole, ha fatto la sua professione.


 

 


 





 
 
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