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Una messinscena all'altezza di una grande opera

di Elisabetta Torselli
  Peter Grimes
Data di pubblicazione su web 31/10/2002  

Nella storia di quest'opera tra le più belle del Novecento si compie un tragitto di avvicinamento alla parola cantata ed alla scena. Nato come compositore strumentale (la deliziosa Simple Symphony è del '34, quando è appena ventunenne), Britten scopre la voce componendo alcuni cicli cameristici (Les Illuminations da Rimbaud, i 7 Sonnets of Michelangelo) durante il soggiorno americano (in Canada e poi negli Stati Uniti) insieme al suo compagno, il tenore Peter Pears (futuro primo interprete di Peter Grimes), soggiorno ricco di occasioni propiziategli dall'amico W. A. Auden e, prima di tutto, un'evasione dal clima perbenista e musicalmente un po' provinciale dell'Inghilterra di allora.

È qui che per la prima volta Britten affronta il teatro, ma con un'operetta su libretto di Auden andata su a New York, Paul Bunyan, operetta per modo di dire trattandosi di un apologo dolceamaro sulla relazione fra natura e civiltà che rilegge la saga americana del pionierismo (1941). Da quella sponda dell'Atlantico la guerra sembra ancora lontana, ma nel 1942 il giovane compositore fa avventurosamente rientro in Inghilterra. Durante il viaggio concepisce la bellissima Ceremony of Carols per voci acute e arpa op. 28, che nelle sue piccole proporzioni e (apparenti) ambizioni di musica natalizia nazionale dissimula però una strenua ed enigmatica raffinatezza di primitivismo nella scelta dei testi, nella sonorità fresca, arcaizzante, incantata: a giudizio di chi scrive, uno degli snodi decisivi nella musica e nella concezione artistica di Britten, proprio sulla strada di questo drammatico rientro in patria, quasi che il compositore che aveva lasciato una pomposa, asfittica, moralista Inghilterra postvittoriana tornasse a un'Inghilterra pre-elisabettiana antichissima e giovane coi suoi colori di fiaba e di arazzo (Ceremony of Carols) e con l'affresco della sua gente povera nei villaggi di mare (Peter Grimes). 

Peter Grimes


La misteriosa, asciutta ma potentemente evocativa "semplicità" di Britten si decanta definitivamente liberandosi e differenziandosi dalla temperie neoclassica da "musica al quadrato" della Simple Symphony, delle Soirées musicali, delle Variazioni per archi su un tema di Frank Bridge, come da quel certo estetismo morbido e inquieto che emerge nelle opere americane. Attraverso questa chiave Britten si può ricollegare alla grande tradizione del realismo inglese e scegliere un testo poderosamente inattuale come il poema The Borough di George Crabbe (1755 - 1832), che si ambientava nel suo Suffolk natale e che lo aveva colpito già in America. Il Peter Grimes di Crabbe è un sadico, ma attraverso la mediazione librettistica di un intellettuale di sinistra come Monagu Slater diventa in Britten un solitario perseguitato dall'ostilità del villaggio e spasmodicamente teso - siamo all'interno di un orizzonte psicologico rudemente calvinista - alla realizzazione di sé: la speranza di una "pesca miracolosa" per realizzare il grosso affare che gli permetterà di dare una svolta alla sua esistenza ci ricorda il traffico dei lupini sulla Provvidenza di Padron N'Toni nei Malavoglia di Verga.

L'azzardo che segna l'acme e insieme la catastrofe, è in effetti un topos, ma Grimes, oltre che se stesso, sacrifica, per incuria piuttosto che per cattiveria, la vita dei propri piccoli apprendisti. Orfani, bambini poveri, sfruttati, condannati al silenzio: Jane Eyre, le famose inchieste inglesi, Dickens, naturalmente. Ma attraverso quest'altro topos più tipicamente albionico si affaccia il grande tema di tutto il teatro britteniano: il tema dell'innocenza, della giovinezza pura e bella distrutte dalla violenza (The Rape of Lucretia), dall'invidia e forse dalla frustrazione sessuale (Billy Budd), dal tentativo di una malvagità ai limiti del soprannaturale di irretirle (The Turn of the Screw). Realismo dunque perché cose reali sono le ossessioni e perversioni, non certo realismo circoscritto al tema sociale e all'ambientazione nel Suffolk che pure, stando agli scritti di Britten e Pears, fu ciò che per primo stimolò il loro interesse per il testo di Crabbe; realismo predisposto, come in Woyzeck/Wozzeck (l'opera di Alban Berg sembra condizionare potentemente soprattutto lo svolgimento del personaggio principale), a protendersi oltre se stesso, verso l'universalità e l'esemplarità del simbolo, così che l'opera come l'immagina Britten diventa subito qualcosa d'altro, una "moralità".

Oltre la sua apparenza di dramma musicale naturalista dalla struttura corale ed aperta, infatti, c'è molto nella musica - ad esempio in certe cadenze vocali che sembrano esemplate su uno stravolgimento e irrigidimento del canto liturgico - di scabro ed asciutto ed inassimilabile al canone realista, del resto abbandonato da Britten nel lavoro successivo, The Rape of Lucretia, impostato come un'opera-oratorio. Quest'edizione fiorentina coprodotta con il festival giapponese Saito Kinen aveva sul podio, in Seiji Ozawa, la sua carta vincente, anche perché orchestra e coro si sono presentate a quest'appuntamento con una preparazione puntigliosa ed orgogliosa, proporzionale al carisma del direttore giapponese. Prescindendo in parte da una tradizione interpretativa epica e un po' fosca che risale all'incisione in studio realizzata nel 1958 dallo stesso Britten, Ozawa ha tradotto in esattezza poetica assoluta una propria e originale chiave di lettura. Alle memorie e modalità di racconto del dramma naturalista Ozawa ha da offrire, sì, il suo straordinario e vigile senso del palcoscenico, e quindi non solo appiombi perfetti come se avesse tutte le voci (coro compreso) a dieci centimetri dalla punta della bacchetta, ma anche e soprattutto sonorità così in equilibrio fra scena e buca dell'orchestra da ottenere una trasparenza e una chiarezza miracolose pur con voci tutt'altro che grandi, cose che si pensa che solo i grandi direttori d'opera di un tempo sapessero fare (e sì che come per tutta questa generazione di grandi direttori intorno ai sessant'anni anche la formazione di Ozawa è sinfonica alla radice, e l'opera un approdo).

C'era una misteriosa e dosatissima energia di accensione e dilatazione che per tutta l'esecuzione faceva miracolosamente levitare colori e respiri, restando pur sempre al di qua del rombo e del fracasso dell'"operona" che il Peter Grimes, in altre mani, correrebbe il rischio di risultare. Ma soprattutto c'era la straordinaria calibratura dell'enigma sempre sottile e inquietante proposto dall'apparenza di semplicità, che è il grande e inarrivabile fascino della musica di Britten e ne ha fatto il modello per torme di minimalisti, neotonali, neoromantici: qui il pensiero va soprattutto ai taglienti e nervosi e però limpidissimi calligrammi del secondo dei sei celebri "interludi del mare" dell'orchestra (e anche questa divisione in quadri intercalati da episodi strumentali viene forse dal modello del Wozzeck di Berg).

Lo spettacolo era firmato dal team esperto a cui Ozawa volentieri si affida nelle produzioni del Saito Kinen Festival di cui è il promotore, e sembrava infatti ispirarsi a principi di scorrevolezza, naturalezza e affidabilità, principi che di fronte ad un'interpretazione musicale di questo calibro ci sembrano molto sani perché, senza forzature e sottolineature, la messinscena lasciava intatto il mistero di fondo della vicenda a cui la musica si incarica di fornire tutti i commenti opportuni. Ci ha fatto molto piacere ricordare, leggendo la biografia del regista David Kneuss, che era stato lui a firmare al lontano Maggio '84 la regia del Fidelio in forma semiscenica, perché abbiamo ritrovato in questo Peter Grimes le stesse qualità di onestà, chiarezza e spontaneità di quello spettacolo lontano. Nella stessa chiave anche le scene, i costumi e le luci firmati da Sarah G. Conly e John Michael Deegan; l'invenzione principale di una grande struttura praticabile a mezz'aria, volta a volta molo, scogliera, luogo deputato del coro della gente del villaggio, serviva in più occasioni a differenziare in modo ben leggibile le azioni individuali da quelle di massa.

Cast soddisfacente, capeggiato nel ruolo del titolo da Philip Langridge, un Peter più chiaro rispetto alla tradizione interpretativa fissata da un tenore quasi baritonale come Peter Pears, complesso ed introverso, più disperato nella sua orgogliosa solitudine che leonino, e da Christine Goerke, Ellen, di grande bellezza di mezzi vocali ben spiegati, morbidi e dall'accentazione intensa e impeccabile, straordinaria nella costruzione di questa generoso e tormentato ruolo di donna forse innamorata, ma profondamente ossessionata dalla predestinazione di Grimes. Tra gli altri, ricordiamo almeno Alan Opie, il buon capitano Balstrode, e il terzetto della locanda, Zietta e le due Nipoti (Jane Bunnell, Sari Gruber, Sarah Pelletier) fra le donne. Ma soprattutto un'orchestra e un coro letteralmente galvanizzati da un podio che faceva la differenza.



Peter Grimes
opera in un prologo e tre atti


cast cast & credits
 
trama trama
 





 

 
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