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Medioevo mediatico

di Roberto Fedi
  Harvey Keitel in "La Morte in diretta", Bertrand Tavernier (1980)
Data di pubblicazione su web 06/10/2005  
Non volevamo parlarne, se non altro per rispetto, ma una lettera di una gentile lettrice ci ha sollecitato. Stiamo parlando della morte in diretta Tv di Franco Scoglio, allenatore di calcio e commentatore televisivo assai conosciuto fra gli addetti.

Il fatto è noto. Lunedì sera, 3 ottobre, mentre in una Tv privata di Genova stava discutendo animatamente con l’ex presidente del Genoa Preziosi, Scoglio ha avuto un infarto devastante ed è morto sul colpo, mentre la telecamera lo riprendeva. Naturalmente chi trasmetteva quel programma non ha colpa: ha sospeso subito le trasmissioni. A quel punto si è scatenata la gara mediatica: e l’ha vinta Mentana, che a tambur battente ha mandato in onda sul suo Matrix in crisi d’ascolti il filmato della morte in diretta. Dicendo poi che non si pente in quanto essendo il defunto uomo di televisione non c’era niente di male a vederlo morire in televisione.

Notevole modo di ragionare, non c’è che dire. Altri si sono regolati diversamente, ma – se non andiamo del tutto errati – anche chi ha rinunciato alla chicca si vedeva che l’ha fatto proprio obtorto collo, anzi obtorto tubo (catodico).

Ora, vediamo un po’. Mentana è sicuramente uomo di televisione, e fra i primi (o ex primi). Allora, seguendo il suo ragionamento, potrebbe farci vedere in diretta quando fa la doccia, o si rade, o va a letto con la sua gentile signora. È, come si vede, la ‘filosofia’ che anima, si fa per dire, il Grande fratello: non c’è spazio al privato nell’era mediatica. Ed è quella sub-filosofia che disanima i falsi reality show che impazzano in questi giorni, dove alcuni decerebrati psicolabili fingono di entrare nelle nostre case spontaneamente, per mostrarci come sono in situazioni falsamente al limite. Il risultato è la pura spazzatura. Ergo, passiamo oltre.

La questione sta, diremmo, qui. Si dà per scontato il diritto alla privacy, naturalmente. Ma, in questo caso, si dirà che l’uomo in Tv alla sua privacy aveva rinunciato per il fatto stesso di essere lì. Verissimo. Ma è altrettanto evidente che mai e poi mai avrebbe immaginato di finire la sua vita lì, in quello studio, e che quindi esibirlo è comunque una violenza. Mica aveva dato il permesso prima come fanno i donatori di organi.

Ma c’è un altro codicillo, che i nostri giornalisti, tutti ignoranti come capre, non hanno rilevato negli accesi dibattiti di questi giorni su questo argomento. La morte è una cosa seria, ma anche un oggetto di studio, amici miei. Se questi qua (mettiamoci anche i moralisti della domenica) leggessero qualche libro, oltre ai loro articoli o ai dati Auditel, saprebbero che esiste – l’abbiamo citato anche un’altra volta – un notevole e prezioso volumetto sull’argomento: Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente. Ariès è un grande storico. Spiega come, nel Medioevo, la morte fosse un fatto pubblico, specialmente per i personaggi di un certo rango o fama, a scopi di educazione o anche spettacolari.

Ora, nel Medioevo non avevano la minima idea di cosa fosse la privacy, ma avevano capito benissimo che la spettacolarizzazione della vita (si nasceva anche in pubblico, per esempio se si era figli di capi o re o simili) e della morte era un fondamentale instrumentum regni, anche in senso lato. Quindi, nessuno aveva da ridire se la sua morte ‘serviva’ alla causa.

Quindi non stiano a romperci l’anima con le loro predicozze da ignoranti furbastri. Queste cose avvenivano già, appunto, nel Medioevo. Solo che allora erano meno ipocriti: lo facevano, e sapevano anche perché. Oggi, in questo Medioevo mediatico, fanno peggio e pretenderebbero anche di raccontarci che lo fanno per il diritto di cronaca.

Meglio il Medioevo.

 


La morte di Franco Scoglio

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