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Alla ricerca delle parole perdute

di Giulia Tellini
  La vida secreta de las palabras
Data di pubblicazione su web 09/09/2005  
Dopo il successo di La mia vita senza me, Isabel Coixet rinnova il sodalizio artistico con la giovane attrice canadese Sarah Polley, protagonista del suo nuovo film La vida secreta de las palabras, presentato a Venezia fuori concorso nella sezione Orizzonti.


Sarah Polley
Sarah Polley

Complice la sordità e un apparecchio acustico tenuto quasi sempre spento, Hanna trascorre l'esistenza auto-reclusa in un mondo di invisibilità, ostinata solitudine e silenzio: vive a Copenaghen, nel vuoto di un appartamento spoglio, le fa compagnia una immaginaria presenza infantile di cui sentiamo solo la voce, lavora in una fabbrica tessile senza mai prendere un giorno di ferie e durante le pause pranzo, seduta in disparte, mangia riso in bianco, pollo e mezza mela. Malvista dagli altri perché straniera, la ragazza viene mandata in ferie forzate dal direttore per un mese e, casualmente, trova lavoro per due settimane come infermiera in una piattaforma petrolifera che, in mezzo al mare, è raggiungibile solo in elicottero. Pochi giorni prima, durante un incendio, un operaio vi ha perso la vita mentre un altro, Josef, è rimasto ustionato e temporaneamente cieco. E' di lui che Hanna dovrà prendersi cura. Gli altri abitanti della piattaforma – ormai dimenticata e in attesa di venire chiusa - sono il responsabile dell'impianto, due giovani operai, l'addetto alle pulizie, un oceanografo idealista incaricato di contare quante sono le onde che si scontrano contro la petroliera, il generoso cuoco Simon che – a suon di musica - prepara laboriosi piatti apprezzati solo dai due protagonisti e infine un'oca, Lise. Sarà, all'inizio, proprio grazie alla cucina di Simon che Hanna si avvicinerà nuovamente – come se stesse commettendo, di nascosto, qualche grave peccato - ai piaceri della vita. E' un protettivo microcosmo dove solitudini più o meno volontarie sono obbligate a convivere in situazioni estreme, in un ambiente quasi onirico (gelido fuori, rovente dentro), claustrofobico e – sebbene interamente costruito dall'uomo - disumano.

Costretto a letto dalle ferite e isolato dal mondo per via della momentanea cecità, Josef scherza con Hanna, le parla ininterrottamente per avvertirne la  vicinanza, per evitare di impazzire. Cerca poi di scalfirne il misterioso silenzio, di avere da lei qualche informazione sul suo aspetto, i suoi gusti, la sua vita. La induce a tenere acceso l'apparecchio acustico. Fra paziente e infermiera si crea, gradualmente, insieme all'inevitabile legame fisico (è di straordinaria delicatezza la sequenza in cui Hanna lo lava con un panno umido), un rapporto di reciproca dipendenza nutrito dall'intenso interesse di lui, dalle sue confessioni sempre più personali, amare, faticose e dalla partecipe, sempre meno laconica, presenza di lei: dopo aver chiamato il dottore chiedendogli, l'indomani, di mandare un elicottero a prelevare il malato, Hanna trascorre la nottata al capezzale di Josef.

Gli descrive, nei minimi particolari, l'episodio – accaduto dieci anni prima - di cui non è mai riuscita a liberarsi e che continua a bussare prepotentemente alle porte della sua mente. Lo racconta perché sa di essere ascoltata e di non essere vista. E le parole perdute – che, come dice la regista catalana, avevano vagato a lungo in un limbo di silenzio e di incomprensione e di incomunicabilità, che avevano girato nella testa di Hanna come leoni in gabbia, che avevano combattuto per tentare di uscire e di essere ascoltate da qualcuno – escono finalmente fuori, tutte insieme, una dopo l'altra, dolorosamente, in un crescendo drammatico che unisce sempre di più la ragazza all'uomo; l'introversione, i sensi di colpa, la tragedia dell'una alla tenerezza, ai rimorsi, alle paure, alla vulnerabilità dell'altro. 

Il fatto di trovarsi in mezzo a un gruppo di persone che, come lei, vogliono essere "lasciate in pace" e la sensazione di essere necessaria a Josef consentono ad Hanna di superare ciò che ha subito, di riportare a un livello riferibile e quindi umano la sua esperienza. L'empatia che si viene a creare fra loro permette prima ad Hanna di donare a Josef la consapevolezza di averne avvertito il bisogno d'affetto e poi a Josef di sentire le sofferenze di Hanna come se fossero sue. Chi viene curato diventa chi cura, i ruoli si scambiano e per la prima volta è Josef a toccare, letteralmente con mano, le ferite di Hanna: «Lascia che le parole – scrive lo scrittore vietnamita Lê Thi Diem Thúy - siano umili, lascia che apprendano che il mondo non comincia con le parole, ma con due corpi stretti l'un l'altro, uno che piange e uno che canta».

Dice Hanna a Josef mentre lo sta lavando: «noto sempre che i pazienti sono contenti di sentire che il loro corpo viene pulito. E' come se pensassero: "ti affido solo il mio corpo ma di me in effetti non saprai mai niente"». Detto questo, Hanna comincia a parlare e Josef ad ascoltarla. E il muro che li separa crolla.


Tim Robbins, Isabel Coixet, Sarah Polley, Javier Camara
Tim Robbins, Isabel Coixet, Sarah Polley,
Javier Camara

Di ammirevole incisività tutte le interpretazioni: dal Simon di Javier Cámara (e non è l'unica delle  citazioni da Parla con lei di Almodovar, qui in veste di coproduttore) alla Hanna della ventiseienne Sarah Polley, di una bellezza dolce e triste, d'aspetto forte e indifeso allo stesso tempo, fino al toccante Josef di un Tim Robbins in stato di grazia (c'è anche un omaggio al suo mister Hula Hoop), l'attore americano più intelligente e sensibile della sua generazione. Delicato cammeo anche per la sempre impeccabile Julie Christie.

Tutto nel film della Coixet è sfumato ed essenziale: il montaggio – definito da qualcuno "televisivo" – non ruba la scena alla storia ed è perciò invisibile, non c'è culto del dolore, non c'è una sola parola o scena di troppo, nessun particolare è trascurabile, dalle saponette usate dalla protagonista (forse il contesto è troppo grave perché si alluda alle ipocondrie di Jack Nicholson in Qualcosa è cambiato?) ad ognuna delle storie raccontate da Josef ad Hanna con gusto affabulatorio e desiderio di confidarsi in uno stato di totale abbandono. Dopo aver visto questo film, lo spettatore non è assalito dal desiderio di vivisezionarlo – analizzandone regia, montaggio, fotografia, ecc - ma solo di ammirarlo.

Inaspettate e perfettamente assorbite dalla storia le due strizzate d'occhio a Chocolat di Lasse Hallström: la scena del pasto solitario, notturno, vorace di Hanna sulle scale della petroliera e la levità quasi fiabesca - ma senza nessuna concessione al lirismo – della voce off, già sentita all'inizio, che accompagna l'immagine conclusiva del film.       

La vita segreta delle parole
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Tim Robbins
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