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Il palcoscenico della distruzione

di Marco Luceri
  Gabrielle
Data di pubblicazione su web 07/09/2005  
Edmund White ne La sinfonia dell’addio scrive, parlando della poesia di corte giapponese, che “l’incontro erotico è un momento insolitamente violento e brutale, preceduto il giorno prima da cortesi poesie e seguito il giorno dopo da poesie di rimpianto e nostalgie”. Potremmo appropriarci di questo insolito esergo per riassumere in poche righe il sottile gioco al massacro che Patrice Chéreau costruisce nel suo pregevole nuovo film, Gabrielle, in concorso qui al Lido, tratto da un racconto di Conrad, Il ritorno. Reduce da importanti successi come Intimacy (2001) e Son frère (2003), il regista francese mette in scena un nuovo serrato dramma da camera, costruito intorno alle indiscutibili capacità interpretative di Isabelle Huppert e Pascal Greggory.

La storia è ambientata all’inizio del Novecento, nell’ovattato mondo dell’alta borghesia parigina, in una casa in cui amici e ospiti sono sempre ben accolti, dove si passano serate a bere, mangiare, chiacchierare e ridere. Una sera accade però l’imprevedibile: l’affascinante padrona di casa viene sedotta da uno di questi habitué e ne resta stregata. Quando però decide di porre la questione di fronte al marito, la coppia entra in una vertiginosa spirale di accuse, segreti, rimpianti e inevitabili bilanci di vita.

Il film viene costruito seguendo lo sviluppo di questa confessione tormentata in una sorta di claustrofobico dramma da camera tutto girato in interni. Il rapporto di svelamento che i due personaggi intessono nei confronti di se stessi e dello spettatore è ambivalente: da una parte Jean cerca insistentemente di indagare sull’accaduto, convinto fino alla fine di poter salvare sia il suo matrimonio, sia il decoro di fronte all’alta società di cui egli fa parte, dall’altra le false reticenze di Gabrielle, tutte tese a non riannodare più i fili di una relazione fallita perché ormai priva di passione.

Il corpus drammaturgico è allora tutto incentrato su questa dicotomia: in un film in cui l’azione scenica è ridotta al minimo, la parola diventa motivo stesso dello sviluppo narrativo; Gabrielle è concentrato in gran parte sull’alternarsi di monologhi lunghi e ben costruiti, interpretati con splendida naturalezza e profondità dai due attori, tra cui svetta però la straordinaria sensibilità artistica della Huppert, nei panni di questa personalissima madame Bovary, protagonista di una tremenda, ma necessaria vendetta nei confronti di un intero mondo.



Appare allora fortemente simbolica la scelta di ambientare l’intero film in poche stanze: esse non sono un semplice seppur efficace palcoscenico, diventano il luogo stesso dell’amore. La donna ritorna a casa perché l’amore è scomparso, mentre l’uomo lascia l’abitazione perché sempre stata priva di vita. Gli echi della tradizione drammatica ibseniana vengono ampliati dal senso di definitività cui porta la tensione del film: nessun amore, nessun legame e l’illusione di una felicità e di una libertà in cui in realtà c’è solo un fondo di mai sopita violenza.

I temi cari all’autore francese vengono in Gabrielle efficacemente messi in scena grazie anche a quella importante esperienza di sperimentazione che Chéreau continua a proseguire nel teatro e nell’opera (famigerato il suo allestimento della tetralogia L’anello del Nibelungo di Wagner al festival di Bayreuth nel 1976). In un film dall’impianto dichiaratamente teatrale, la regia cinematografica non viene per niente sacrificata; colpiscono soprattutto gli arditi, ma eleganti movimenti di macchina, soprattutto carrelli con steadycam, che riescono a rendere ancora più alienanti e vuoti questi interni magistralmente costruiti da Olivier Radot e fotografati da Eric Gautier. I lunghi momenti di pausa e i silenzi riescono a conservare altissima la tensione del film, grazie anche alle cerebrali partiture musicali del compositore italiano Fabio Vacchi, perfettamente costruire intorno per far immergere lo spettatore nella finissima lotta verbale dei due protagonisti.

Un disperato incontro erotico, allora, trasforma Gabrielle in un perfetto palcoscenico della distruzione. Con il suo formalismo e la sua stilizzazione, il film di Chéreau apre ancora una volta inquietanti e dolorosi interrogativi sul legame che unisce l’uomo e la donna, reciprocamente vittime e carnefici dei sentimenti dell’altro, come in una giostra mortale fatta di parole. Quelle della finzione scenica. Quelle della realtà.


 




Gabrielle
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