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Alle pendici della Nouvelle Vague

di Marco Luceri
 
Data di pubblicazione su web 05/09/2005  
Uno splendido ritorno quello di Philippe Garrel, qui al Lido con lo stupefacente Les amants réguliers. Considerato agli albori come dotatissimo discepolo di Godard e Truffaut, Garrel ha intrapreso all’inizio degli anni Sessanta un percorso di forte sperimentazione, non tradendo mai l’originale spirito della Nouvelle Vague, di cui ancora oggi si nutre gran parte del suo cinema, compresa quest’ultima affascinante opera.

Ammantato in un bianco e nero rarefatto e struggente, Les amants réguliers è ambientato nel mitico e contraddittorio 1968, nella Parigi scossa dagli ideali velleitari di una generazione di splendidi dreamers. Non è forse azzardato considerare il filo rosso che lega il film di Garrel a The Dreamers (2003) di Bertolucci, collegamento forse volutamente esibito grazie proprio a Louis Garrel (figlio del regista), che interpreta un ruolo molto simile a quello del Theo bertolucciano: un poeta ventenne, affascinato dagli ideali anarchici, che vive in uno splendido appartamento con amici e sodali, una sorta di comune di giovanissimi artisti, di cui entra a far parte una bellissima ragazza interpretata da Clotilde Hesme. I due giovani artisti (lei è scultrice) si conoscono durante un’insurrezione notturna e tra loro ben presto nasce un amore tenero e folle.

Se il film di Bertolucci sposta il discorso su un Sessantotto più “visto” (si pensi alla preponderanza delle sequenze metacinematografiche) che “vissuto” (le bandiere rosse compaiono solo alla fine), i dreamers di Garrel incarnano in tutto e per tutto quell’ideale sessantottino dell’Immagination at power, sebbene appaiono subito (come poi in effetti sarà quella generazione) come dei perdenti. La sconfitta della lotta politica passa per gli scontri di piazza con la polizia, con le barricate distrutte, con le fughe solitarie in anonimi cortili alla ricerca di una fuga che sa tanto di amara rinuncia. Logico allora che l’unica ancora di salvezza, l’estremo (forse) gesto rivoluzionario resta quello della preservazione dell’arte (bellissima, a tal proposito, nella sua beffarda ironia, la scena del processo), vissuta in un rapporto d’amore inevitabilmente maledetto, in cui il sentimento si fa veicolo di conoscenza reciproca.

E’ una sorta di difficile travaso di responsabilità la storia di questi due amants réguliers, in cui ognuno è chiamato a riempire i vuoti, non solo artistici, dell’altro. Ma mentre lei sembra, nell’accecamento dell’amore, conservare una seppur flebile coscienza, tanto da capire che la scelta tra l’arte e la vita è sempre dolorosa, il giovane poeta resta fino in fondo vittima della sua bellissima illusione, quella cioè di identificare la poesia, e le dolci ed oscure immagini da essa create, con la realtà quotidiana, fatta invece di terribili rinunce ed abbandoni. Nessuno dei due, alla fine, riesce a cedere la propria sincerità verso l’altro: l’irregolarità della loro esistenza viene punita, allora, proprio dalla stessa arte, che da veicolo di salvezza diventa motivo di separazione e di morte. E’ un film sulla rinuncia allora, quello di Garrel, a più livelli, politica, morale, sentimentale, umana
 
Appare allora logica la decisione del regista francese di fare anche un certo tipo di discorso sul cinema, sulla sua capacità di farsi, attraverso le forme della rappresentazione del reale, a sua volta strumento di conoscenza; ecco allora la scelta azzeccata di dare alla messinscena del film un impianto volutamente dejà vu, nel senso che molti elementi rimandano in maniera diretta all’immaginario della Nouvelle Vague: dalle splendide luci di William Lubtchansky, che avvolgono sia gli interni che gli esterni in una luce velatamente sognante, nel cui contrasto tra luci ed ombre poter costruire una sapientissima tessitura delle immagini, all’ab-uso di mascherini, dissolvenze, sguardi in macchina, citazioni (da Prima della rivoluzione a Baci rubati, da La cinese a La bella scontrosa), alla musica ipnotica e sotterranea di Nico.

Né film politico o generazionale né un amarcord da parte di un regista che il Sessantotto l’ha vissuto e dunque filmato, spesso da protagonista. Piuttosto un’opera delicata, decadente e maledetta, che non rifugge però dalla dolcezza: una parabola autobiografica piuttosto, e forse anche qualcosa di più: non sarà Les amants réguliers il film definitivo che la Nouvelle (pardon, Ancienne) Vague ha voluto lasciarci?





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