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Un'epopea wuxiapian

Federico Ferrone
  Seven Swords
Data di pubblicazione su web 02/09/2005  
Tsui Hark, maestro del cinema d’azione di Hong Kong, è entrato a pieno titolo nella considerazione del pubblico e nella stima degli addetti ai lavori del cinema occidentale. Due circostanze lo dimostrano: la devozione sconfinata che gli rendono personaggi come Quentin Tarantino, che nel 2004 lo volle accanto a sé nella giuria di Cannes, e il fatto che il suo nuovo film Seven Swords, sia stato scelto come film d’apertura del Festival di Venezia 2005, evento riservato solitamente alle mega produzioni hollywoodiane.

Di qui a parlare di un nuovo incontro tra cinematografia d’oriente ed occidente la strada è lunga, anche perché nel caso dell’universo del regista cinese i due mondi sono già di per sé influenzati e mescolati: Tsui Hark ha studiato cinema in Texas mentre il cinema hollywoodiano da tempo conosce e saccheggia abbondantemente Hong Kong, sia in termini di idee che di personale tecnico e artistico.

Seven Swords

Il dato interessante è che Seven Words è comunque, nonostante certe soluzioni, un film di ambientazione storica e di armi marziali tradizionali, a dimostrazione della penetrazione che hanno ormai anche sui mercati occidentali i film del genere, spesso emuli del wuxia pan, sorta di racconto di cappa e spada made in Hong Kong, e già spesso ripreso sotto varie forme dalla generazione di Hark e John Woo. Tsui Hark però, a differenza di John Woo, è rimasto ad Hong Kong anche quando quest’ultima è tornata alla Cina e infatti Seven Swords si avvale unicamente di attori e tecnici cinesi. In principio (recente) era stato La Tigre e il Dragone, non a caso opera di un regista sino-americano come Ang Lee, che sembrò schiudere all’America un mondo cinematografico, portando a casa anche qualche oscar nel 2000. Poi sono venute anche le “conversioni eccellenti” al genere arti marziali (sempre in stile orientale), ultima fra tutte quella di Zhang Yimou. Ma in principio (vero) fu appunto il wuxiapian, genere di racconto di arti marziali, in gran voga ad Hong Kong, e che parla spesso di grandi e positivi eroi solitari che si battono in un mondo violento per riportare su Terra la pace e la prosperità.

Seven Swords è una gigantesca epopea che riprende, per titolo e trama I sette samurai, ma che talvolta paradossalmente ricorda più per ambientazioni e svolgimento il suo epigono americano I magnifici sette. Trasposizione di un celebre romanzo wuxiapian degli anni Settanta (Seven swords of Mount Heaven di Liang Yu-Shen), la storia si situa nel 1660, anno in cui la dinastia manciuriana Ching, conquistando la Cina, si insedia sul trono dell’Impero. Per porre fine alle sacche di simil-mujihaddin in tutto il paese è proclamato un editto che vieta la pratica delle armi marziali, al seguito del quale una banda di para-militari guidati dall’ufficiale Fire- Wind coglie l’occasione di arricchirsi massacrando tutti i villaggi di resistenti.

La vicenda, epico scontro Bene-Male, narra della creazione di un gruppo di sette combattenti valorosi, le sette spade del titolo, che si organizzano in difesa dei piccoli villaggi. A capo del gruppo un ex-aguzzino pentito dei manciuriani, per il quale un venerabile “maestro della montagna”, Shadow Glow, forgerà appunto sette lame invincibili con le quali armerà, dopo averli addestrati, i sette valorosi. Di contorno, donne rapite e poi liberate, tradimenti, bambini combattenti, fughe, duelli all’ultimo sangue, vendette, epiche marce nel deserto e quant’altro correda un’epopea del genere, che ha nel rapporto spada-combattente uno dei suoi punti più salienti.

Seven Swords è un kolossal che, nonostante la violenza, è fatto per piacere al più grande numero di persone: le cadute di stile sono inevitabili, come alcune scene che ricordano gli spot della Marlboro Country, oppure la colonna sonora talvolta troppo insistente o addirittura ben oltre i confini del kitsch, tuttavia il risultato è grandioso. Le soluzioni visive, come da tradizione volutamente irreali, sono talora straordinarie, come nella scena iniziale dell’assedio al villaggio, filmata con telecamera a colori ma che produce un effetto di bianco e nero, ottenuto grazie unicamente ai costumi dei personaggi e alla scenografia, vera e propria scala di grigi interrotta solo dalle fiammate di rosso vivo degli stendardi dell’esercito di Fire Wind.

Seven Swords

Egualmente eccezionali, ma ciò era quasi scontato visti i precedenti, le coreografie e le scene di combattimento, grazie anche alla stella del genere Donnie Yen. A tal proposito, va segnalata un’evoluzione nei credits, i quali riconoscono (giustamente) per le scene d’azione un regista specifico, in questo caso Lau Kar Leung.

Tsui Hark ha diretto, scritto e prodotto un film dal budget enorme secondo dinamiche produttive che ricordano il Peter Jackson de Il signore degli anelli, vale a dire con concessioni al grande pubblico ma mantenendo un suo, evidentissimo, marchio di fabbrica. E anche per Seven Swords, il finale lascia decisamente credere che un seguito sia già nella testa dei produttori.

 


Seven Swords
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