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La violenza dello sguardo

di Paola Valentini
  E. Borgnine nell'episodio diretto da Sean Penn
Data di pubblicazione su web 01/01/2002  
La tragedia dell'11 settembre ha chiaramente dimostrato lo stretto collegamento tra immagine e memoria. Anche nell'era della comunicazione diffusa, della pluralità dell'informazione, in particolare visiva, un evento come quello dell'attacco alle Twin Towers diviene ben presto negli occhi e nella mente una particolare immagine: quella che coglie dal basso, da un punto di vista terreno, il primo aereo che con il suo rombo infrange il cielo azzurro di Manhattan, mentre l'operatore non può trattenere un "Oh, my God"; e quell'altra immagine, opposta, quasi aerea, che osserva attonita il secondo aereo tagliare come una lama l'angolo della seconda torre.

E. Borgnine nell'episodio diretto da Sean Penn
E. Borgnine nell'episodio diretto da Sean Penn

Come ha dichiarato il produttore Alain Brigand, "Quando all'indomani dell'11 settembre ho visto le immagini della tragedia ho capito che a quelle immagini si doveva rispondere con altre immagini". Una sfida quasi impossibile da vincere, come la forza e l'impatto ancora fortissimo delle solite inquadrature mille volte replicate dagli studi televisivi, anche in occasione della celebrazione dell'anniversario, hanno dimostrato. Questa sfida ha successo solo in alcuni momenti felici del film: come nel fotogramma finale di Samira Makhmalbaf che alle torri in crollo sostituisce il fumarolo del forno di mattoni di Mahmoudabad; o nel gioco di ombre e luci, di morte e vita del filmato di Sean Penn: come sa bene chi abbia visto quelle torri dal vero, all'ombra che da trent'anni le Twin Towers proiettavano su Manhattan oppone l'immagine paradossale del ritorno della luce nelle case dei poveri quartieri sottostanti.

Il film voluto con tutte le sue forze da Claude Lelouch finisce con il dimostrare ulteriormente questo assunto. Si è molto parlato e protestato in questo film il rischio di antiamericanismo; la posizione di molti autori in effetti è chiara. Tuttavia il film non pone tanto l'accento sulla necessità di difendere un'opinione diversa, non difende tanto la dialettica tipicamente democratica tra concezioni differenti ma offre in senso stretto un altro sguardo. Obbliga a guardare da un punto di vista in senso letterale differente e gioca sulla disponibilità dello spettatore a ri-vedere quella stessa tragedia con altri occhi, attraverso altre immagini. Effettivamente, l'America, le Twin Towers in questo film finiscono praticamente con l'essere fuori campo, quasi completamente sottratte alla vista; l'attenzione è tutta sul soggetto dello sguardo, mentre l'oggetto della sua apprensione è assente, distante, sostituito da spesso ingombranti parole.

L'origine dell'iniziativa è nota: ricordare l'11 settembre con undici film di misura simbolica (11 minuti, 9 secondi e un fotogramma ciascuno) affidati a 11 tra i più grandi registi del mondo: accanto al citato patron francese dell'operazione, si trovano infatti nell'ordine dietro la macchina da presa Samira Makhmalbaf (Iran), Youssef Chahine (Egitto), Danis Tanovic (Bosnia), Idrissa Ouedraogo (Burkina Faso), Ken Loach (Inghilterra), Alejandro Gonzáles Ińárritu (Messico), Amos Gitai (Israele), Mira Nair (India), Sean Penn (U.S.A.) e Shoei Imamura (Giappone). È indubbiamente un film di grande impatto, nonostante il ricercato procedimento retorico sembri qua e là avere la meglio, e gli occhi si facciano distrarre dai tagli improvvisi che chiudono la narrazione o dalla ricerca impossibile di quel fotogramma unico e isolato che "chiude" la storia. Così come un po' fastidioso o forse solo ingenuamente utopico, dopo le tragedie che il mondo ci sta mostrando, appare l'intento celebrativo che qua e là affiora nemmeno in modo tanto velato nei confronti della ormai vecchia e forse inesistente figura dell'intellettuale: la densità di rimandi e metafore cinematografiche nell'episodio di Lelouch, o la dimostrazione di Chahine su come il regista possa con un semplice riavvolgimento di pellicola ricreare le torri.

11 settembre 2001 effettivamente colpisce con le sue disparate ambientazioni, dalla scuola scavata nella roccia iraniana alla piovosa Srebenica, dalle vie polverose del Burkina Faso ai viali insanguinati del golpe cileno, e induce a una profonda riflessione che porta verso i grandi focolai di guerra del mondo e quelle situazioni analoghe da scenario bellico che non solo l'"attacco all'America" ma tanti paesi sperimentano quotidianamente: i territori palestinesi, le guerre contro nemici invisibili come le epidemie, la condizione dei rifugiati, i paesi senza più uomini, decimati nelle loro risorse lavorative e vitali, la persecuzione e il pregiudizio, e dietro tutto il puro orrore.

Il film però, sia nel suo complesso che nei suoi singoli frammenti, sembra a tratti mal conciliare finzionalità e realismo. Per questo i filmati più riusciti appaiono la parabola morale del grande regista africano che "si concede" la leggerezza e le immagini dei quattro ragazzini che tentano l'impossibile cattura di Bin Laden, la cui taglia consentirebbe di risarcire di malattie e povertà il loro paese; o la pura fiction (solo un americano probabilmente poteva azzardarsi a tanto) che porta Sean Penn a proporre la storia di un vedovo, impersonato da un inconfondibile volto di Hollywood, quello di Ernst Borgnine. Oppure all'opposto è indelebile il ricordo dell'agghiacciante video messicano, che alterna i flash delle immagini più disperate delle due torri (il lancio delle persone dalle finestre) a lunghi istanti di buio, accompagnando il filmato con un impasto sonoro che mescola litanie, il brusio della città che lavora, i disperati appelli e gli accorati saluti lasciati dalle persone imprigionate nella torre sulle segreterie di casa e, infine, il tonfo dei corpi caduti sull'asfalto. Tra le mescolanze di registro, la più convincente è sicuramente quella di Ken Loach, del resto abituato da tempo a muoversi tra realtà e finzione e che, in ogni caso, qui pone in modo ben riconoscibili i confini tra le due, opponendo il colore e la voce fuori campo della finzione letteraria (la lettera di cordoglio ai cittadini americani di un rifugiato cileno) al povero e secco bianco e nero delle immagini d'archivio che documentano il golpe di Pinochet.

È indubbio che il film offre poi molte altre occasioni di riflessione, che vanno oltre gli avvenimenti newyorkesi in sé. Nonostante, come dichiarato da Lelouch, non ci sia stata nessuna indicazione e nessun accordo preventivo tra i vari registi, l'opera appare per altri versi singolarmente unitaria. Analoghe sono infatti le tensioni che attraversano i film, tra tutte quella mai risolta completamente tra privato e pubblico. Diciamo solo che non si tratta semplicemente di misurare le vicende del privato sul pubblico o viceversa; è che realmente il film finisce con il far riflettere se queste grandi tragedie alla fine rimangano realmente pubbliche e collettive o divengano presto solo private e individuali. Come nei grandi eventi (mediali) diviene difficile decidere se si ricordi proprio Kennedy e Dallas oppure se quelle immagini e quella tragedia diventino l'aiuto a fermare un frammento della nostra quotidianità altrimenti destinato drasticamente all'oblio, mantenendo vivi ricordi dai più insignificanti (l'ora, il luogo in cui si era, il vestito indossato ecc.) ai più tragici (la crisi di un amore, la presa di coscienza della morte della moglie, la morte di un figlio, la malattia di una madre). L'altro aspetto che scivola da un filmato all'altro è la tensione tra vedere e non vedere. Ciascun film a suo modo ne installa il tema: la ragazza sorda che non "vede" la tragedia alla televisione, i bambini iraniani che non riescono a immaginare un grattacielo, il paravento che separa la vista del funerale indiano nella moschea, la radio che riporta in Bosnia solo il resoconto giornalistico della tragedia o, in modo più radicale, il buio che toglie consistenza alle immagini nel film di Ińárritu.

Quest'ultimo aspetto, non suoni irriverente, conduce a un'ultima considerazione; il film è anche e prima di tutto un grande affresco sul fare cinema oggi; del resto un regista da sempre impegnato come Amos Gitai ha ammesso tranquillamente: "A me piace sottolineare che in questo caso un evento drammatico ha prodotto arte". Una carrellata attraverso paesi e sguardi cinematografici peculiari, dal piano sequenza ininterrotto di Gitai al montaggio frenetico e le camere a mano di Loach, dai dettagli insistiti, le forti campiture coloristiche, le inquadrature fortemente angolate e i rallenty di Sean Penn (consacrato se ce ne fosse bisogno come regista da cui attendersi molte cose) alla sobrietà e la misura delle spoglie immagini di Tanovic (che ritrova anche nella stretta dimensione del corto i momenti felici di No man's land), per chiudere infine sull'inconfondibile simbolismo e sulla composizione teatrale delle immagini ormai del tutto cinematografiche e lontane anni luce da New York del reduce di guerra giapponese tratteggiato da Imamura.

Un'ultima nota infine per un film internazionale che invita alla comunione tra popoli e chiama alla valorizzazione delle differenze ma che paradossalmente nemmeno in questo caso ha visto i distributori italiani della Bim rinunciare al vergognoso ricorso al doppiaggio, privando lo spettatore della babele, dell'ambiguità e del colore dei diversi linguaggi.
 

11 settembre 2001 - 11' 09'' 01
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Episodio 1
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Episodio 2
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Episodio 3
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Episodio 4
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Episodio 5
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Episodio 6
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Episodio 7
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Episodio 8
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Episodio 9
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Episodio 10
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Episodio 11
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