Un tour mondiale per promuovere il suo ultimo film, grandi battages pubblicitari e tutto quanto fa da contorno a unoperazione industriale degna di una media-grande impresa per questo La Guerra dei mondi di Steven Spielberg. Ma il risultato è relativamente modesto, nonostante la drammaturgia sia quella ‘solitamente spielberghiana, quella che ha fatto scuola: prendi una normale famiglia americana del ceto medio-basso e coinvolgila con gli alieni offrendo così allo spettatore una via più diretta per identificarsi con la storia. Ma, a differenza di Incontri ravvicinati del terzo tipo, il gioco riesce meno bene, anche per il divario abissale tra Richard Dreyfuss e Tom Cruise (un vero attore il primo, uno pseudoattore il secondo), e sembra più un ‘già visto che uno stilema drammaturgico usato più maturamente, benché in parte mutuato (migliorandone il livello e facendolo assurgere a drammaturgia) dai film catastrofici degli anni Settanta (Terremoto, Linferno di cristallo, Airport).
Padre e figlia osservano la tempesta artificiale creata dagli alieni
Dunque, arrivano i ‘marziani, e questa volta sono cattivi, ma proprio cattivi e assomigliano un poco a quelli di Indipendence day. Qualcuno ha voluto vedere in questo film anche un sottotesto allusivo all11 settembre. In effetti, il volto impolverato di bianco di Cruise, che torna a casa dai figli dopo le prime distruzioni degli alieni (che falciano gli uomini come grano), ricorda gli straniti personaggi che si aggiravano intorno alle macerie del World Trade Center, così come i vestiti dei morti che volano come pezzi stracciati di giornale evocano i brandelli che piovevano su Manhattan in quel maledetto giorno che ha cambiato in peggio le nostre vite. I figli di Cruise si chiedono, terrorizzati: «Papà sono terroristi?». No, sono molto, molto peggio dei terroristi.
Tom Cruise è un padre fallito, separato dalla moglie e che non riesce a dialogare con i figli, specialmente (e ovviamente) con il maschio, il quale vorrebbe combattere gli alieni e aggregarsi allesercito. Papà Cruise lo scoraggia in ogni modo, ma a un certo punto dovendo o salvare lui dallunirsi a truppe di passaggio destinate al massacro, o salvare la figlia, è costretto a ‘una scelta di Sophie e opta per la piccola. Questo momento terribile, fatto con un montaggio magistrale, non riesce, pur nelluso virtuosistico di un linguaggio cinematografico ‘storico e fondante, a coinvolgere completamente. Possiamo solo ammirare lalgida bravura di un grande regista.
Inizia a questo punto del film, dopo distruzioni e panico generali, una sorta di parentesi alla Shyamalan di Signs (USA, 2002, con Mel Gibson e Joaquin Phoenix). Padre e figlia si rifugiano nello scantinato di un paranoico e patriottico ‘scoppiato interpretato da uno strepitoso Tim Robbins (sempre magnifico attore). Cruise deve lottare contro la voglia di farsi giustizia di questo americano medio (e perciò sempre pieno di armi), che vuole sparare su alcuni alieni in ricognizione nella sua cantina. Latmosfera claustrofobia ricorda lo scantinato della famiglia di Signs, anchesso assediato dagli extraterrestri. Forse un omaggio allottimo regista indiano? Non si sa, probabile. Il confronto però fa pendere la bilancia a favore di Shyamalan, almeno a nostro parere.
Tim Robbins
Lattendismo prudente di Cruise viene scambiato dal figlio e da Tim Robbins per codardia. Invece (questo forse ‘un messaggio del film) non è da interpretare così. Siamo razionali, sembra dirci Spielberg, non precipitiamoci a menare le mani e a imbracciare fucili a canne mozze, alludendo allirrazionalità della guerra in Iraq e al disastro che la risposta americana allatto di una banda di maniaci terroristi ha causato al mondo intero. O almeno così ci piace interpretare questo aspetto della storia.
Alla fine, dopo varie peripezie, Cruise e la figlia raggiungono la casa della ex-moglie a Boston e, miracolo!, anche il figlio che si supponeva incenerito insieme a un intero corpo darmata è lì, vivo e vegeto e riconoscente a posteriori verso la saggezza del padre rivalutato da codardo a eroe. Gli alieni nel frattempo sono distrutti…. da un minuscolo virus contro cui non hanno difese, come gli indios che a migliaia furono uccisi dal morbillo o dalla scarlattina portati dagli 'alieni' europei nella foresta amazzonica.
I grandi, strepitosi effetti speciali e uninteressante atmosfera luministica notturna e crepuscolare, insieme alla citata attenzione drammaturgica per la classe medio-bassa americana, non fanno di questo film niente di più che un blockbuster di classe, certo migliore di molti altri: è pur sempre uno Spielberg. Lhappy end, come diceva un grande teorico del cinema, è indispensabile per ricucire la frattura interiore che si crea nello spettatore assistendo allo spettacolo: il lieto fine ricompone le parti che la drammaturgia filmica ha scisso durante il suo agire e lo spettatore e la spettatrice tornano a casa evidentemente e necessariamente più contenti. Un film del genere e il suo pubblico non possono, né probabilmente devono, rinunciarvi: le regole dello show biz devono resistere a tutti, anche e soprattutto agli alieni, allusivi o meno di pazzi «con i tovaglioli in capo» (celebre e razzista battuta di Marlon Brando, avido petroliere ne La formula, USA-RFT 1980). Tutto si ricongiunge dunque nel finale ‘necessario: la parti scisse dello spettatore – ‘esposto al cinematografico – e la famiglia della storia narrata.
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La guerra dei mondi
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la locandina |
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