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Fuori la Storia

di Daniela Pecchioni
  Concorrenza sleale
Data di pubblicazione su web 01/01/2001  
Quell'unità di luogo tanto cara a Scola. Che si tratti di raccontare poche ore (La Terrazza), un giorno (Una giornata particolare), qualche mese (Concorrenza sleale) o una vita intera (La famiglia), l'importante è farlo lasciando la Storia, quella con la ‘s' maiuscola, appena al di la della macchina da presa. In uno spazio, a quanto pare, irrappresentabile.

L'ultimo film in ordine d'arrivo, in particolare, si svolge su un vero e proprio palcoscenico.

Una scenografia, accuratamente ricostruita da Luciano Riccieri nei teatri 7 e 8 d Cinecittà, rappresenta la sintesi ideale del quartiere Prati alla fine degli anni Trenta. Sedici miliardi spesi nella ricerca di una perfezione che rende, allo spettatore, la sovrapponibile fotografia di una strada di sessant'anni fa e che, allo stesso tempo, calza al millimetro con lo stereotipo teatrale di molta della commedia più antica.

Le due botteghe dei concorrenti messe l'una di fianco all'altra, il portone di casa sul quale le servette si abbandonano ai pettegolezzi (e, forse non a caso, una di loro parla veneto), la questura proprio di fronte, sul lato opposto del marciapiede. E poi la bottega del vinaio, la profumeria con la bella proprietaria, il piccolissimo negozio del riparatore di orologi… Uno schema prospettico da commedia dell'arte, o che potrebbe, assai facilmente, appartenere ad una qualunque commedia goldoniana, per non parlare di molte delle ambientazioni di opere in musica che perfettamente si adatterebbero allo schema. La scelta stessa di far parlare i personaggi con diversi accenti dialettali (il milanese di Umberto/Abbatantuono, il romano di Leone/Castellitto, il toscano del burocrate fascista/Bigagli, il già citato veneto della servetta e l'accento straniero dell'orologiaio/Rich) proviene direttamente, in maniera più o meno consapevole, da certa commedia di teatro.

Eppure siamo proprio al cinema, e l'unità di luogo presa a prestito dal teatro, si ingigantisce sotto la lente attenta della macchina da presa che sottolinea i più impensati e piccoli particolari che sfuggirebbero allo spettatore in sala: il Meccano, la gazzosa con la pallina, le calze con la riga, Amedeo Nazzari sulle copertine dei rotocalchi, il giornalino per ragazzi "L'Avventuroso", l'Idrolitina sapientemente sciolta nella bottiglia prima di cena…

E' proprio cinema. E quando il tram attraversa quella strada, lui, unico legame forte con l'altrove della Storia che resta al di fuori, mostra nello specchio dei finestrini la quinta parete del palco, quella che a teatro non esiste, rivelando le insegne e la vita di coloro che, al cinema, si trovano dallo stesso lato dello spettatore.

Quanto peso, poi, a quel tram che continua, nel corso dell'intero film, a percorrere la via segnando, ad ogni suo passaggio, i cambiamenti che lentamente sconvolgono le vite dei personaggi. Unico legame, abbiamo detto, con l'altrove. Un mezzo per far entrare, in certi casi, l'altrove stesso, la Storia, in quella piccola via che osserva silenziosa il suo passaggio con a bordo gli "Sposi per il duce". Un mezzo che vediamo dall'interno soltanto nel momento in cui l'altrove è negato - cosi come la radio, la cameriera ariana, il lavoro, la scuola, la casa – a chi appartiene alla razza ebraica. E noi spettatori saliamo impotenti, insieme al ragazzino di famiglia cattolica, su quel tram che ormai è carico di simboli e tristi realtà, per osservare e capire in un istante la tragicità del doverne restare fuori del suo compagno di giochi che, siccome ebreo, non potrà più frequentare i suoi stessi luoghi. Imprigionato, ora, nell'immobilità di quella unità di luogo di cui sentiamo improvvisamente il peso.

Un concetto, quello dell'altrove, che Scola è riuscito altre volte a rendere magistralmente pur negandogli una rappresentazione effettiva. Penso, ad esempio, alla radio in sottofondo di Una giornata particolare che scandisce le ore di quel 6 maggio del 1938 in cui Hitler arriva a Roma. Lo stesso giorno in cui Leone e Umberto finiscono in questura davanti al burocrate fascista che, con una strizzata d'occhio del regista al ‘suo' spettatore, sottolinea quanto le loro beghe commerciali siano di poco conto di fronte agli eventi di una "giornata tanto particolare" come quella. Ed ecco che, per chi abbia un minimo di memoria cinematografica, l'altrove diviene, in quel momento, quel cortile tra i palazzi della Garbatella in cui una casalinga cresciuta nel culto del duce (Sofia Loren) e un ex annunciatore radiofonico omosessuale, prossimo al confino, (Marcello Mastroianni) vivono la loro storia di diffidenza che, lentamente, cede alla comprensione e all'affetto, contemporaneamente a quella di Leone e Umberto. Su un'altra scena altrettanto immobile, altrettanto unica, che parrebbe svolgersi qualche teatro di posa più in là.

Ma ai personaggi di Concorrenza sleale non sembra interessare molto l'altrove. Rinchiusi in quel piccolo mondo che basta a se stesso, lavorano, parlano, vivono, si azzuffano, si riconciliano. Forse addirittura inadeguati ad uscirne (il cognato di Umberto quando se ne va per arruolarsi nelle camicie nere finisce per spararsi ad un piede rischiando di perderlo). O, nel momento in cui lo desiderano, tragicamente delusi (l'orologiaio che pensa di salvarsi in America e viene deportato). Infine, la famiglia di ebrei è condannata all'altrove. E il film non può che finire cosi. Con l'uscita di tutta la famiglia da quella unità di luogo che, tutto sommato, rappresentava l'ultimo spiraglio di umanità, proprio grazie alla dimensione che faceva dei personaggi non ebrei ed ariani, ma ‘concorrenti sleali' pronti a stringersi la mano, a vivere sullo stesso pianerottolo, a ridere per non sapere di cosa parlare.

Fuori c'è la Storia, quella vera. Irrapresentabile, non solo per Scola, ma per chiunque l'abbia vissuta.


Concorrenza sleale
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