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L'ostinazione della realtà

di Giovanni Maria Rossi
  Sweet sixteen
Data di pubblicazione su web 01/01/2002  
Il cinema contemporaneo, inizi millennio, è sempre più autoreferenziale. Parla di sé, del proprio stile, della fine del racconto, dell'occhio che guarda e dell'assenza dell'oggetto. Non tutto il cinema. Qualcuno si ostina ancora a perforare oltre lo schermo, a fissare lo sguardo e l'orecchio dietro la parete della finzione per restituire alla macchina da presa la sua curiosità primaria, l'indagine conoscitiva sul mondo esterno, quello che ancora ci ostiniamo a chiamare realtà.

Ken Loach è uno di questi ultimi cantori del reale. Occhio mobile che non diventa dogma frenetico (95), ambienti veri senza l'estetica e il décor ammaliante del postindustriale, volti e corpi di attori che sembrano uscire dalla porta accanto, purché sia Glasgow di periferia, brufoli e lentiggini, un linguaggio gergale elementare e violento che abusa di interiezioni e di fucking, perché la vita per molti è fottuta in partenza e non può permettersi metafore gentili. Anche per Liam, che avrà sedici anni, Sweet sixteen, tra pochi giorni, ma neanche il tempo per accorgersene o festeggiare come tanti copains fasulli dei teen-movies hollywoodiani. Liam può al più sghignazzare con gli amici per un pessimo tiro giocato al poliziotto di quartiere, Liam che a scuola non va più da tempo, che ha una sorella-madre con un figlio piccolo da crescere, che gioca al contrabbando al minuto, che ha la mamma in prigione per questioni di droga, che subisce la violenza manesca del compagno di lei quando rifiuta di avvelenare ancora di più la reclusione materna con una dose di droga passata di bocca in bocca.

Liam e il suo amico di strada Pinball non hanno età di ragazzi, solo i modi sgangherati, i sogni minimali, innocenti: una roulotte con vista sulla baia, per quando la madre uscirà di prigione, la musica pop, il junk food di tutti i teenagers, le sgommate on the road, un sorriso di donna in distanza.



Ma la strada dei quartieri bassi è in salita, passa per una sfrontatezza necessaria, l'indurimento dell'essere nel disagio sociale, il welfare postthatcheriano dissolto, lo spaccio trionfante di ero per accumulare le sterline bastanti a realizzare i desideri di un figlio senza padre. Loach accompagna questi ragazzi nell'accelerazione drammatica della vita senza indulgenze o moralismi: ne segue la discesa agli inferi, quando il gioco si fa duro e il prezzo del riscatto individuale tende a salire, quando la mala organizzata non tollera la libera impresa dei ragazzini, quando crescere vuol dire entrare negli ingranaggi del crimine e la rabbia giovane può velarsi di sangue.

Pur comprimendo l'abituale humour e spostandosi ai margini stessi di quella classe operaia che con ammirevole assenza di retorica aveva rappresentato nel cinema inglese moderno, Ken Loach misura abilmente ogni passaggio, ogni sprofondamento nelle spirali della violenza che potrebbero rasentare il genere e stempera il "romanzo" di formazione di un ragazzo di strada sottolineando le fragilità e gli affetti familiari di Liam, che non può permettersi di essere buono ma che vorrebbe essere normale. My name is Loach, non chiedo altro che raccontare questo fucking world, con la verità del cinema.

Sweet sixteen
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