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Morte di un giornalista

di Roberto Fedi
  René Magritte, "Le double secret" (1927), Pompidou, Paris
Data di pubblicazione su web 03/06/2005  
Un modo più serio di ripercorrere la storia in televisione, rispetto alle sceneggiate modello soap opera che non si sa a chi possano interessare se non, appunto, agli amanti di queste ultime, è quello che si spera che qualcuno abbia visto l’altra sera, per la serie La storia siamo noi (Perché Tobagi?: Rai Educational, Rai Due, naturalmente a orario indecente, le 23). Si parlava, con la conduzione di Giovanni Minoli, di Walter Tobagi, il giornalista del «Corriere della Sera» che venne ucciso da un gruppo di giovani delinquenti, capitanato da Marco Barbone, che aspirava a entrare nelle Brigate Rosse e che per questo voleva crearsi un credito di sangue.

È stata una trasmissione ben fatta, molto bella. Giovanni Minoli è bravo, e spiace vederlo poco. Le interviste erano sobrie e serissime. I brani filmati dell’epoca (esattamente 25 anni fa, il 28 maggio) eloquenti e talvolta agghiaccianti – tremendo quello con il corpo del trentatreenne Tobagi in terra, in una pozzanghera (pioveva), con la moglie inginocchiata accanto, e gli amici disperati intorno.

Walter Tobagi era un bravissimo giornalista, che da tempo scriveva, in modo serio e cercando di capire, sul fenomeno sanguinoso del terrorismo, che questa Italia smemorata e indecorosa sembra essersi dimenticato. Era un serio riformista, come hanno detto tutti; era una persona perbene, con una moglie e due figli giovanissimi (eccezionali, per la loro sobrietà, le dichiarazioni di oggi della figlia, da far vedere nelle scuole, se oggi esistesse una scuola in questo paese di veline). I suoi assassini erano giovanotti ben inseriti nella società affluente e borghese della Milano dell’epoca. Quello che lo uccise, e sparò anche il colpo di grazia, Marco Barbone, fu arrestato quasi subito. Naturalmente si ‘pentì’ seduta stante. Venne scarcerato durante il processo, un anno e mezzo dopo.

Gli autori (Davide Di Stadio, Marco Melega, Raffaella Cortese) hanno ricostruito con attenzione l’atmosfera (era la cosa più difficile) e gli eventi del tempo. Che prevedono anche una specie di ‘giallo’, che ha riportato l’attenzione sul fatto. Sembra infatti che una nota informativa di un agente avesse rivelato, già mesi prima, che era in preparazione un’azione criminosa contro il giornalista: che, da parte sua, rifiutò la scorta. Poteva essere salvato? Non è chiaro nemmeno adesso. A questo si aggiunge però una tremenda certezza: il volantino che subito dopo rivendicò l’assassinio era così preciso, così ‘tecnico’ nell’analisi, sia pure delinquenziale, del mondo del giornalismo milanese che non poteva sicuramente essere stato scritto solo da ragazzotti-bene senza arte né parte. Quello che è risultato alla fine chiarissimo è il senso di caos, di impreparazione delle forze investigative, di connivenza in vari strati della società che fu tipico di quegli anni schifosi. E anche  l’imbarazzato menefreghismo, ad essere sinceri, che seguì per molti anni quell’omicidio, fino a volerlo dimenticare: tipico di un paese amorale,  generoso con i carnefici (l’unico al mondo in cui gli assassini che astutamente collaborano per avere sconti di pena vengono chiamati ‘pentiti’), e spietatamente infastidito nei confronti delle vittime. Tutto questo, il programma lo rendeva con calma, con distacco ma non senza pathos, facendo parlare i fatti.

Fa piacere, una volta tanto, vedere in televisione qualcosa che sollecita un’attenzione intelligente, una partecipazione anche emotiva sincera. Dato che, per l’ora tardissima della messa in onda, il programma è terminato alle ore piccole, una volta tanto se abbiamo passato una notte agitata, beh, la cosa ha avuto un senso.  


La storia siamo noi. Perché Tobagi?

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